Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
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Pediatrica, IRCCS Materno-Infantile "Burlo Garofolo", Trieste
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per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it
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Vale per gli arachidi, ma anche per pesce, latte, uova
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Per prevenire le allergie alimentari potrebbe essere utile dare piccole quantità degli alimenti 'sensibilizzanti' prima dello svezzamento, già a quattro-cinque mesi di vita. Lo afferma un editoriale sul New England Journal of Medicine, che si basa sui risultati di uno studio su 1300 neonati.
Lo scorso anno, ricorda nell'articolo Gary Wong della Chinese University of Hong Kong, una ricerca chiamata Leap aveva stabilito che dare il burro di arachidi precocemente ai bambini riduceva drammaticamente il rischio di allergia. Per verificare se lo stesso principio possa essere valido anche per altri cibi i ricercatori del King's College di Londra hanno diviso i bimbi in due gruppi. I genitori dei bambini che hanno introdotto precocemente gli alimenti dovevano dare ai bambini ogni settimana tre cucchiaini da tè di burro di arachidi, un uovo piccolo, due porzioni (circa 50 grammi) di yogurt di latte vaccino, tre cucchiaini di pasta di sesamo, 25 grammi di pesce e due biscotti con cereali. Nei bambini, circa il 42%, che hanno seguito strettamente il protocollo, spiega Wong, il tasso di allergie è risultato molto inferiore, il 2,4% contro il 7,2%. A determinare la rinuncia sono state soprattutto le paure dei genitori di dare cibi solidi a bimbi così piccoli. "Anche se il test ha mostrato che l'introduzione precoce degli alimenti è sicura, il tasso molto basso di aderenza suggerisce che l'introduzione di questo protocollo nella vita reale sarebbe molto difficile -. Allo stesso tempo le evidenze stanno crescendo che il consumo precoce, più che quello ritardato, sia la strategia migliore per prevenire le allergie". ![]()
Per le infezioni alle vie urinarie in un caso su due l'amoxicillina non funziona più. In un caso su quattro non basta il trimetoprim. Così, anche per i più piccoli, sempre più spesso è necessario ricorrere ad antibiotici di seconda scelta da fare, magari, per via endovenosa.
Se un bambino si ammala di un'infezione alle vie urinarie, usare l'amoxicillina, uno dei più comuni e usati antibiotici, in un caso su due è inutile. Nei paesi industrializzati sarebbe, infatti, intorno al 53 per cento la percentuale di resistenza a questo farmaco per questo tipo di infezioni. Non se la caverebbe tanto bene neanche con un altro diffuso antibiotico: il trimetoprim. Della sua presenza i batteri se ne infischierebbero nel 25 per cento dei casi. L'allarme arriva da una ricerca dell'Imperial College di Londra e dell'Università di Bristol in cui sono stati considerati ben 58 studi sulle infezioni urinarie pediatriche, condotti in 26 paesi, che hanno analizzato oltre 77 mila colture di Escherichia coli, il batterio responsabile di circa l'80 per cento di queste patologie. Ma i dati della ricerca, pubblicata sul British Medical Journal, non si fermano qui. L'indagine mostra anche che nei paesi in via di sviluppo, tra cui Brasile, Cina e Malesia, le percentuali di resistenza agli antibiotici sarebbero ancora più alte e preoccupanti: 80 per cento per l'amoxicillina, 60 per cento nel caso in cui a questo antibiotico sia aggiunto l'acido clavulanico, oltre il 25 per cento per la ciprofloxacina. E queste resistenze perdurerebbero per almeno sei mesi dal precedente trattamento. Numeri inquietanti se si pensa che la Società Europea di Microbiologia Clinica e Malattie Infettive, e il suo analogo statunitense, affermano che un antibiotico può essere considerato un trattamento di prima linea per le infezioni urinarie se la resistenza nei confronti dell'agente infettante più comune non supera il 20 per cento. L'età dei bambini arruolati dagli studi analizzati andava dai pochi giorni fino ai 17 anni, fascia anagrafica in cui si stima che almeno un maschio su 30 e una femmina su 10 vada incontro a un'infezione urinaria. Patologie quindi abbastanza comuni, caratterizzate da bruciore e disturbi nella minzione, febbre e presenza d leucociti e nitriti nelle urine e contro le quali normalmente basterebbe una semplice ed economica terapia antibiotica orale. «La ridotta efficacia di questi farmaci, però, può costringere i medici a ricorrere ad altri trattamenti più costosi, magari somministrati per via endovenosa e con più effetti collaterali, specialmente per pazienti così vulnerabili come i bambini», sottolinea Ashley Bryce, ricercatrice a Bristol. Senza contare il rischio di complicazioni renali conseguente a infezioni ricorrenti e non completamente guarite. L'antibiotico resistenza è un fenomeno che sembra riguardare anche le infezioni urinarie pediatriche, alimentata dalla tante, troppe e spesso ingiustificate prescrizioni di farmaci antimicrobici da parte dei pediatri di base. Nei paesi in via di sviluppo, poi, la disponibilità di questi farmaci senza l'obbligo della prescrizione medica, la presenza di infrastrutture sanitarie più deboli e la mancanza di un serio monitoraggio dell'uso di antibiotici aggravano la situazione. «I legislatori pensano di agire razionalmente promuovendo la disponibilità di antibiotici senza prescrizione in paesi dove le infezioni sono più diffuse e l'accesso ai farmaci spesso difficoltoso e, analogamente, pensano di essere razionali i medici che nei paesi occidentali cercano di soddisfare i propri pazienti in cerca di sollievo da sintomi preoccupanti, ma così facendo influenzano negativamente la disponibilità di un bene prezioso e condiviso come quello di antibiotici efficaci», puntualizza in un editoriale di commento allo studio Grant Russell, docente alla Monash University di Melbourne. Per contrastare questa pericolosa tendenza, i ricercatori auspicano una pronta rivisitazione delle indicazioni cliniche per il trattamento delle infezioni urinarie pediatriche rimaste pressoché invariate dagli anni Novanta e una più attenta fruizione da parte dei pediatri dei dati relativi all'efficacia degli antibiotici in uso. «I medici devono abituarsi a ripercorrere e analizzare nei loro piccoli pazienti una sorta di "storia antibiotica" prima di prescrivere un farmaco per le infezioni batteriche urinarie, perché un medicinale utilizzato in passato potrebbe non essere più efficace», conclude Bryce. Apnee nel sonno possono portare a problemi di attenzione a scuola
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Dal 3% al 21% dei bambini russa, a seconda della gravità, da 'ogni notte' a 'spesso', mentre una percentuale variabile tra l'1% e il 6% è interessato da disordini respiratori del sonno. Problemi comuni e spesso sottovalutati che possono però avere conseguenze anche sull'attenzione e la capacità di apprendimento a scuola. A fare il punto su come intervenire in modo precoce sono le 'Linee guida nazionali per la prevenzione ed il trattamento odontoiatrico del russamento e della sindrome delle apnee ostruttive nel sonno in età evolutiva', approvate dal Consiglio Superiore di Sanità e pubblicate sul sito del Ministero della Salute.
Il russamento, si legge, "è il rumore generato dalla vibrazione dei tessuti molli oro faringei", mentre l'apnea ostruttiva nel sonno (Obstructive Sleep Apnea Syndrome, OSAS) "è una condizione caratterizzata da ripetuti episodi di completa o parziale cessazione del flusso d'aria attraverso le vie aeree superiori". Se il problema non viene trattato, le conseguenze vanno dalla sonnolenza diurna alla scarsa resa scolastica, da deficit di crescita a cefalea mattutina, nonché aumentato rischio di otiti e di alcune patologie cardiovascolari, quali il cuore polmonare. Tra le raccomandazioni e le indicazioni evidence based fornite dalle Linee guida nazionali, ruolo centrale lo svolge l'odontoiatra, che "in virtù dei controlli periodici di sua competenza", può riconoscere il problema ed intervenire con l'applicazione di dispostivi orali". In particolare, durante l'esame, "deve porre attenzione alle caratteristiche cranio facciali, alla respirazione orale, al volto allungato, al mento piccolo e retruso, all'affollamento dentale, al palato alto e stretto". Inoltre, "è buona norma, che raccolga elementi in merito alla resa scolastica, alla capacità di concentrazione" così come alle infezioni ricorrenti alle vie aeree. Tra le opzioni di trattamento, ribadisce il documento, ruolo importante è rivestito dal 'classico apparecchio dentale, in grado di favorire l'espansione rapida del palato. Devono stare all'aperto almeno due ore al giorno
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È la luce esterna che salva gli occhi dei bambini dalla miopia: la ricetta per evitare gli occhiali, quindi, è lasciare che i piccoli trascorrano all'aperto almeno due ore al giorno.
È la conclusione di una ricerca condotta da Scott Read della Queensland University of Technology e presentata alla Australian Vision Convention presso Queensland. Di recente uno studio ha stimato che entro il 2050 ci saranno nel mondo 4,8 miliardi di persone con miopia, praticamente la metà (il 49,8%) della popolazione mondiale, e 938 milioni con la forma grave. La quota di miopi sarà molto alta soprattutto in Asia, dove si supererà il 60%, ma anche in Europa occidentale i miopi saranno la maggioranza, il 56,2%. Il gruppo di Read ha seguito sia la crescita dell'occhio di un campione di bambini (se l'occhio cresce rapidamente il rischio miopia è elevato) sia il grado di esposizione dei piccoli alla luce esterna (durante la stagione fredda e durante quella calda) facendo loro indossare uno wristwatch, un dispositivo che si tiene al polso come un orologio e registra molte informazioni. E' emerso che i bambini risultati meno esposti alla luce esterna presentano una crescita dell'occhio più rapida e quindi sono a maggior rischio di miopia e di progressione della malattia. In base a questo studio, quindi, la miopia non è - come si è teso sempre a dire - tanto figlia dell'uso invalso di pc, tablet, e TV che implica guardare da vicino, quanto della carenza di esposizione alla luce esterna, infatti queste attività sono svolte prettamente al chiuso. La proposta: prevedere screening prima e durante la gravidanza. L'infezione è asintomatica, ma se trasmessa al feto può causare sordità e ritardo psicomotorio
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Il citomegalovirus è molto comune e fa parte della famiglia degli Herpesvirus. Una volta contratta l'infezione (quasi sempre asintomatica), il virus rimane latente nell'organismo per tutta la vita, ma può riattivarsi in caso di indebolimento del sistema immunitario. È silente ma potenzialmente insidioso: nelle persone immunodepresse può causare gravi danni a occhi, fegato, apparati gastrointestinale, respiratorio e nervoso (polmonite, epatite, ulcera gastrica e duodenale, retinite). Se l'infezione viene contratta in gravidanza non comporta rischi per la mamma, ma può essere molto pericolosa per il bambino (sia prima che dopo la nascita), che può sviluppare problemi di udito (fino alla sordità), fegato ingrossato, ritardo di crescita, ittero, macchie rosse sulla pelle che sono piccolissime emorragie, dimensioni piccole della testa, convulsioni.
Ottocento bambini con disabilità Il Citomegalovirus (CMV) si trasmette solo da uomo a uomo tramite i fluidi del corpo: sangue, saliva, urina, liquidi seminali, secrezioni vaginali e latte. La fonte più frequente di contagio sono i bambini piccoli, che possono rilasciare il virus nelle urine anche dopo mesi o anni (anche 5-6) dall'infezione iniziale. In Italia non è previsto lo screening del virus né prima della gravidanza né nei nove mesi di gestazione e neanche dopo la nascita. Ma il problema esiste: ogni anno in Italia ci sono circa 13 mila infezioni primarie (ovvero acquisite per la prima volta) nelle donne in gravidanza, 5mila bambini nati con un'infezione congenita e di questi circa 800 destinati a soffrire di severe disabilità permanenti. Dunque servono programmi di screening prima e durante la gravidanza. È ciò che ha chiesto l'Associazione microbiologi clinici italiani (AMCLI) durante la conferenza internazionale sull'infezione congenita da Citomegalovirus umano, organizzata dalla Società Europea ECCI (European Congenital Cytomegalovirus Initiative) a Venezia. Principale causa di sordità non genetica «In Italia, la mancanza di un programma di screening coordinato ha portato ad avere uno screening spontaneo e disomogeneo nelle varie regioni che comporta spesso la conduzione di iter procedurali non corretti» spiega Maria Paola Landini, direttore della Microbiologia del Policlinico Universitario Sant'Orsola di Bologna e membro del Direttivo AMCLI. «Il citomegalovirus umano è la principale causa di infezione congenita nei Paesi sviluppati, con un'incidenza complessiva dello 0,7% di tutti i nati vivi ed è la principale causa di sordità non genetica in età pediatrica. In Italia il 60-70% delle donne in età feconda ha anticorpi CMV-specifici, segno che ha contratto questa infezione una volta nella vita. Se l'infezione viene contratta per la prima volta da una donna in gravidanza, può trasmettersi al feto in circa il 40% dei casi» sottolinea Pierangelo Clerici, presidente AMCLI. Problemi per due neonati su mille Dei neonati che nascono con infezione congenita, il 10-15% ha sintomi più o meno gravi alla nascita e fino al 70-80% di questi svilupperà gravi disturbi entro i primi due anni di vita (ritardo psicomotorio, sordità, alterazioni oculari). In questi bambini la mortalità è circa del 10%. Inoltre, il 5-15% dei neonati infetti ma asintomatici alla nascita svilupperà complicazioni successivamente. In conclusione, circa due neonati ogni mille nati vivi soffrono per un'infezione congenita severa da citomegalovirus. «Si tratta di un problema complesso e in pratica ancora poco conosciuto anche se molto "chiacchierato" - conclude Tiziana Lazzarotto, professore di Microbiologia del Policlinico Universitario Sant'Orsola di Bologna e membro del direttivo AMCLI -. Il summit di Venezia offre un'opportunità per individuare e implementare azioni concrete per fronteggiare e alleviare i problemi associati a questa patologia». ![]()
Una ricerca dell'Istituto di biomedicina e immunologia molecolare del CNR rivela la mancanza di lipossina A4 nella scarsa risposta alle cure a base di cortisonici nei casi di asma grave dell'età pediatrica e offre nuove prospettive terapeutiche. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of Allergy and Clinical Immunology.
Nel trattamento dell'asma grave nei bambini, un ruolo importante nell'inefficacia della terapia a base di cortisone è svolto dal deficit di lipossina A4 (LXA4). A evidenziarlo, uno studio condotto, presso l'Istituto di Biomedicina e Immunologia Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IBIM-CNR) di Palermo, da un team di ricercatori biologi e medici italiani e francesi. Le lipossine sono eicosanoidi (agenti biologici che regolano numerose funzioni organiche) caratterizzati da proprietà anti-infiammatorie e anti-fibrotiche e sono coinvolti nei processi di risoluzione dell'infiammazione. "Nello studio è stato osservato che i bambini con asma grave avevano livelli inferiori di LXA4 nelle vie aeree rispetto a bambini con asma intermittente", spiega Rosalia Gagliardo dell'IBIM-CNR. "Inoltre, a prescindere dalla gravità della malattia, tutti i bambini asmatici inclusi nello studio avevano livelli più elevati rispetto ai sani di leucotriene B4 (LTB4), una molecola ad azione pro-infiammatoria, che funge da ‘controregolatore' della LXA4". I bambini con asma grave esaminati nello studio presentavano inoltre, sia rispetto ai piccoli pazienti con asma intermittente sia rispetto a quelli sani, un'espressione ridotta nelle vie aeree del recettore della lipossina - il FPR2/ALXR (formyl peptide receptors2-lipoxin receptor). "Il complesso LXA4-FPR2/ALXR è coinvolto nell'attivazione del recettore dei corticosteroidi, a dimostrazione del fatto che esiste un'interazione fra questi e la LXA4 nella regolazione del processo infiammatorio delle vie aeree dei pazienti con asma". "Questi dati dimostrano che l'alterata biosintesi di lipossina A4 e un deficit del suo specifico recettore FPR2/ALXR, nelle vie aeree, associati a un incremento della molecola leucotriene B4, potrebbero essere alla base di una ridotta risposta alla terapia cortisonica a lungo termine, fenomeno che potrebbe favorire la persistenza dell'infiammazione delle vie aeree, il mancato controllo della malattia e la ridotta qualità della vita del paziente". I risultati di questo studio suggeriscono il potenziale ricorso a nuove strategie terapeutiche basate sulla combinazione di lipossine e corticosteroidi, allo scopo di potenziare gli effetti di questi ultimi e diminuirne il dosaggio. Tale terapia combinata potrebbe fornire nuovi approcci farmacologici per le malattie respiratorie croniche, specie di pazienti in età pediatrica. Lo studio è stato pubblicato su Journal of Allergy and Clinical Immunology. ![]()
Nascere con una malattia comune o rara. Oggi, rispetto ad alcuni anni fa, diverse malattie congenite fanno meno paura perché la ricerca ha fatto passi avanti, in alcuni casi ha già cambiato la condizione dei piccoli malati, per esempio nella cura delle cardiopatie congenite, delle malattie neurologiche, della disabilità mentale. Dei risultati e delle prospettive del progresso scientifico si è parlato il 4 maggio 2016 a Roma in un convegno, "Nascere malati", organizzato dall'Ospedale pediatrico Bambino Gesù. «Il 3% dei bambini nasce con una patologia congenita, cioè malato - esordisce il genetista Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell'ospedale -. I progressi scientifici stanno cambiando la storia naturale di molti malati congeniti in termini di speranza di vita, in alcuni casi si arriva anche alla guarigione, in altri si riesce a tenere sotto controllo la malattia ed è possibile una migliore qualità della vita».
Passi avanti Gli esperti del Bambino Gesù hanno fatto il punto su una decina di argomenti esemplificativi di alcune malattie comuni e rare nella popolazione dei neonati. A seguire, le testimonianze di pazienti, genitori e rappresentanti di associazioni. «Abbiamo cominciato dalla talassemia - afferma il direttore scientifico del Bambino Gesù -. Negli anni Sessanta chi soffriva di questa malattia viveva in media fino a 15-20 anni, poi l'aspettativa di vita si è allungata notevolmente con le trasfusioni di sangue, col trapianto di midollo, fino ad arrivare oggi alla terapia genica. Anche per chi nasce con la fibrosi cistica la vita media si è decisamente allungata e, negli ultimi due anni, si è arrivati a farmaci specifici che contrastano alcune mutazioni di geni». Si è parlato poi dei progressi nel campo delle malattie metaboliche, delle cardiopatie congenite, delle nefropatie. Messaggio positivo «A cambiare la vita di molti malati congeniti è stata anche la chirurgia, in particolare i trapianti: dal cuore ai reni, dal fegato ai polmoni - aggiunge Dallapiccola -. Notevoli passi avanti sono stati fatti anche per il controllo della disabilità mentale, per esempio oggi i bambini che nascono con la sindrome di Down sono autosufficienti, vanno a scuola, si inseriscono nel mondo del lavoro, è cambiata la qualità della loro vita; impensabile fino agli anni Settanta. Insomma - conclude il direttore scientifico del Bambino Gesù - la ricerca traslazionale, portata al letto del paziente, ha cambiato e sta cambiando il corso di alcune malattie. Per questo vogliamo lanciare un messaggio positivo ai pazienti e ai loro familiari». In Italia il problema riguarda 1 under-18 su mille, le femmine (12-17 anni) sono il doppio dei maschi: spesso viene prescritta la paroxetina, sconsigliata nei minorenni
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L'uso dei farmaci antidepressivi in bambini e ragazzi è oggetto di uno studio internazionale, che dimostra come in sette anni (2005-2012) sia aumentato del 40% in cinque Paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Danimarca e Olanda). È una tendenza mondiale, anche se meno marcata nei Paesi mediterranei, inclusa l'Italia. Lo studio, pubblicato sull'European Journal of Neuropsychopharmacology, è stato definito «preoccupante» dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.
In Gran Bretagna il ricorso agli antidepressivi per curare i minorenni è cresciuto del 54%, del 60% in Danimarca, del 49% in Germania, del 26% negli Stati Uniti e del 17% in Olanda. I maggiori incrementi si sono registrati nelle fasce di età tra 10 e 14 anni e tra i 15 e 19 anni, e i farmaci più utilizzati sono quelli a base di citalopram, fluoxetina e sertralina. La depressione va presa subito in carico Negli ultimi anni c'è stato anche un aumento delle diagnosi dei disturbi dell'umore nell'infanzia. «Negli Stati Uniti ci sono dei casi segnalati già a 5-7 anni - spiega Ernesto Caffo, Neuropsichiatra infantile e fondatore di Telefono Azzurro -, anche se direi che iniziamo ad avere vere diagnosi dagli 8-9 anni in su, più frequenti a 13-14 anni. A livello mondiale il 6% degli adolescenti soffre di disturbi dell'umore». Bambini e ragazzi possono esprimere il loro desiderio di morire o di voler fuggire, magari in situazioni di difficoltà e fragilità. «La cosa importante è prenderli subito in carico - prosegue Caffo -, perché la depressione, se non trattata, può diventare cronica. Il farmaco non è però la soluzione, vi si può ricorrere solo se il supporto offerto dalla famiglia, a sua volta aiutata, e dalla psicoterapia si rivela inefficace, e comunque per un periodo di tempo limitato». Purtroppo anche la risposta alla salute mentale in età adulta è in forte crisi, mancano gli strumenti di aiuto e sostegno, e «nei Paesi dove si sono fatti tagli ai servizi in questo settore - conclude Caffo - è aumentato il ricorso ai farmaci». Secondo lo studio citato sopra, in Gran Bretagna molti medici di base dicono di non avere alternative ai farmaci, dati i lunghi tempi di attesa per accedere alla psicoterapia. Grande maggioranza di ragazzine «In tutto il mondo si stima che tra i minorenni (0-18 anni) il 12-13% soffra di disturbi neuropsichiatrici, nella maggior parte dei casi si tratta di ansia e depressione - spiega Maurizio Bonati, a capo del Dipartimento di Salute Pubblica all'Istituto Mario Negri di Milano -. Per quanto riguarda i bambini e adolescenti trattati con psicofarmaci, si va dall'1-2 per cento negli Stati Uniti al 4-5 per mille in Europa, fino al dato italiano, che è di circa l'1 per mille (almeno 20 mila casi). Per la stragrande maggioranza si tratta di ragazze tra i 12 e i 17 anni: le femmine curate con questi farmaci sono esattamente il doppio dei coetanei maschi. Soffrono di disturbi alimentari, alterazioni dell'umore, disturbi d'ansia o di panico». Per Bonati, lo studio internazionale succitato lancia un messaggio non del tutto veritiero: «In realtà le cose sono cambiate di poco in dieci anni e l'aumento dei casi trattati è stato lieve, parliamo sempre di numeri piccoli, per fortuna. Anche se è vero che prendiamo in considerazione solo i pazienti che si curano con il Servizio pubblico, non sappiamo nulla del sommerso: chi si cura in strutture private o non si cura affatto. Ma il problema vero è un altro: ovvero che i farmaci più utilizzati nei minorenni sono spesso inappropriati. Come la paroxetina, il cui uso è fortemente sconsigliato sotto i 18 anni - come ha dichiarato la Food and Drug Administration americana in un alert -, perché può fare anche aumentare i casi di suicidio. Invece, essendo il farmaco di riferimento per trattare la depressione negli adulti, viene spesso prescritta anche agli under 18». C'è farmaco e farmaco «Tra gli psicofarmaci, e gli antidepressivi in particolare, sono pochi i farmaci con indicazione per l'età pediatrica e comunque nessuno è indicato sotto i 6 anni - continua Bonati -. Come ho detto, è molto prescritta la paroxetina (tra i primi 5 farmaci usati in Italia nel trattamento dei minori), anche dai medici di base, ma questo farmaco dovrebbe essere rimborsato dal Servizio sanitario nazionale solo agli adulti: invece spesso né il medico né il farmacista si preoccupa del fatto che il paziente sia minorenne o che la patologia necessiti di un piano terapeutico. Non è un problema di soli costi, ma soprattutto di appropriatezza nella terapia. Anche perché ci sono altri farmaci meno utilizzati - come sertralina e fluoxetina - che sono invece più indicati per la fascia di età pediatrica». Recentemente è stato avviato dal Ministero della Salute un apposito Tavolo di lavoro proprio per discutere dell'uso di psicofarmaci nei minorenni, dell'appropriatezza prescrittiva da parte dei medici e dei controlli distributivi da parte del farmacista. Il supporto della terapia psicologica Ma perché a bambini e adolescenti vengono prescritti questi farmaci? Qual è il percorso diagnostico che si fa, o che si dovrebbe fare, per evitare terapie sbagliate? «La prescrizione degli psicofarmaci, sia agli adulti che ai bambini, rappresenta uno degli strumenti terapeutici e non sempre dovrebbe essere il primo - spiega Bonati -. In particolare per i bambini i farmaci dovrebbero aggiungersi agli interventi psicologici. Il tutto conseguente a un'appropriata diagnosi fatta da un Neuropsichiatra. Il problema - prosegue Bonati - è che la rete dei servizi di neuropsichiatria è totalmente insufficiente in Italia a rispondere alle numerose richieste, per cui non tutti possono accedere in tempi brevi ai servizi e i bisogni rimangono disattesi. Le liste d'attesa nelle strutture pubbliche sono lunghe e il ricorso al privato incontrollato aumenta. In tale situazione, sebbene le prescrizioni di psicofarmaci siano inferiori rispetto ad altri Paesi (perché in Italia prevale una cultura conservatrice all'uso degli psicofarmaci per i bambini e lo stigma di disturbo psichiatrico, anche in età evolutiva, rappresenta un enorme carico sia per il paziente che la famiglia), il percorso terapeutico spesso non è quello più appropriato. E questo comporta anche il considerare quei casi in cui la prescrizione del farmaco rappresenta la risposta più rapida e meno costosa, rispetto a cicli di terapia psicologica». Efficacia dell'approccio cognitivo Anche per Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze dell'ASST-Fatebenefratelli-Sacco, Milano, e presidente della Società Italiana di Psichiatria, quello della rete di supporto neuropsichiatrico o psicologico è un grosso problema: «La psicoterapia cognitiva (attualmente l'approccio riconosciuto come maggiormente valido) fa sì che il giovane riesca ad avere maggiori strumenti per riconoscere le emozioni e mettere uno spazio (anche di pensiero) tra emozioni e azioni - spiega Mencacci -. Per questo servono sia Psicologi che Psichiatri adeguatamente formati per questo tipo di psicoterapia, ma al momento in Italia non c'è grande offerta. Ci sono delle scuole che stanno crescendo nell'ultimo decennio, e nell'attesa si seguono altri tipi di approcci che non hanno le stesse prove di efficacia». Sulla bilancia rischi e benefici Mencacci sottolinea l'importanza di affiancare l'eventuale terapia con farmaci al supporto psicologico: «Già nel 2005 un nota dell'AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) mette un allarme sulla prescrizione di psicofarmaci a bambini e adolescenti e un importante studio del 2004 pubblicato sul British Medical Journal dimostrava che, tranne nei casi gravi di depressione, è consigliabile non prescrivere antidepressivi a bambini e ragazzi. In ogni caso, prima di dare farmaci, ci deve essere l'ascolto e la valutazione clinica del caso e poi bisogna mettere sulla bilancia rischi e benefici: da un lato c'è un patologia invalidante che ha ripercussioni anche sullo sviluppo cognitivo e relazionale, dall'altro va considerato che nell'infanzia e adolescenza sono in fase di maturazione alcune aree cerebrali già orientate a un aumento dell'impulsività e che con alcuni antidepressivi potrebbe ulteriormente crescere questo aspetto, fino ad arrivare a una notevole aggressività verso se stessi o gli altri». Fondamentale il sostegno alla famiglia «Conosciamo esordi della depressione, del disturbo bipolare e delle psicosi anche prima dei 12 anni, dunque serve molta cautela - conclude Mencacci -. Va sempre tenuta presente l'indicazione di psicoterapia di tipo cognitivo e di interventi educazionali nei confronti dei genitori, perché la maggior parte dei disturbi mentali (circa il 70%) compare nell'adolescenza o comunque entro i 25 anni. Esiste purtroppo anche la depressione nell'infanzia, colpisce allo stesso modo bambini e bambine: è chiaro che va trattata, ma con il massimo dell'attenzione e del supporto, anche alla famiglia». Tutto ciò che è bene sapere sulla «sindrome del bambino scosso»
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La Shaken Baby Syndrome, ovvero «sindrome del bambino scosso», indica quelle forme di abuso legate a un violento scuotimento del bambino con conseguente trauma sul cervello e conseguenze neurologiche. Oggi si preferisce adottare anche la più moderna definizione di Abusive Head Trauma (AHT), suggerita dall'American Academy of Pediatrics nel 2009, per sottolineare come non solo lo scuotimento, ma anche un impatto traumatico, o la combinazione di entrambi i meccanismi, possano essere alla base di tale patologia.
Al di là della definizione, la sindrome del bambino scosso rappresenta una forma di maltrattamento che può avere conseguenze drammatiche e la cui reale incidenza può essere davvero difficile da stabilire, non solo per la complessità della diagnosi, ma anche perché molte vittime non giungono all'attenzione dei medici. Piangere è l'unico strumento che il neonato ha per comunicare: può avere fame, sonno, caldo, freddo, il bisogno di essere cambiato o semplicemente di coccole e di un contatto fisico per essere rassicurato. Qualunque sia il motivo, non bisogna mai scuoterlo per calmarlo. Anche se può sembrare un gesto banale, i danni sul bambino possono essere gravissimi, come nei casi di ematoma subdurale (conseguente al trauma cranico), edema cerebrale ed emorragia retinica. Queste problematiche sono tutte da attribuire allo "scuotimento" del bambino, che nei casi più gravi possono portare addirittura alla morte. È molto difficile dire quanto violento o quanto protratto debba essere lo scuotimento per causare un danno. Di solito il bambino viene afferrato a livello del torace o delle braccia e scosso energicamente circa 3-4 volte al secondo per 4-20 secondi. L'impatto col pavimento o una superficie rigida non è necessario e questo giustifica la possibile assenza di segni esterni evidenti. Si tratta in genere di bambini tra i 4 e i 6 mesi, non solo perché essi necessitano di cure costanti che possono esasperare genitori fragili, ma anche perché il loro capo è pesante rispetto al corpo e i muscoli del collo ancora non sono in grado di sostenerlo adeguatamente. Le conseguenze immediate sono vomito, inappetenza, difficoltà di suzione o deglutizione, irritabilità e, nei casi più gravi, convulsioni e alterazioni della coscienza, fino all'arresto cardiorespiratorio. A lungo termine i bambini possono presentare difficoltà di apprendimento, cecità, disturbi dell'udito o della parola, epilessia, disabilità fisica o cognitiva. È importante non sottovalutare i primi segni da parte del piccolo, campanello d'allarme per una corretta diagnosi. Fattori "di rischio" che aumentano la probabilità di AHT sono: famiglia mono-genitoriale, età materna inferiore ai 18 anni, basso livello di istruzione della madre, uso di alcol o stupefacenti, disoccupazione, episodi di violenza, da parte del partner o comunque in ambito familiare, e disagio sociale. Anche condizioni socioeconomiche scadenti comportano un rischio maggiore di violenza, a volte anche "inconsapevole" da parte di genitori esasperati, al solo scopo di consolare il pianto ininterrotto del neonato. Da un recente studio condotto in Scozia, Stati Uniti, Nuova Zelanda e Svizzera, si evince che l'incidenza di AHT sarebbe di 14,7-38,5 casi/100.000 bambini. Il 25-30% delle piccole vittime muore e solo il 15% sopravvive senza esiti. In Italia non esistono dati certi sul fenomeno, si ritiene che l'incidenza possa essere di 3 casi ogni 10.000 bambini di età inferiore ad un anno, ma il dato potrebbe spaventosamente rappresentare solo la punta di un grande iceberg sommerso. La Società Italiana di Neonatologia si è fatta portavoce di una campagna di sensibilizzazione al problema, in collaborazione con Terre des Hommes, che prevede anche la distribuzione di materiale informativo presso tutte le Neonatologie italiane. «Questi casi di violenza sono meno rari di quanto si pensi e non possono sfuggire al sospetto del medico, che deve denunciare il reato alle autorità, come previsto dalla legge - afferma il Presidente della Società Italiana di Neonatologia Mauro Stronati – Ma ha anche l'obbligo di informare adeguatamente i genitori sui danni che uno scuotimento può provocare. In molti studi si dimostra, infatti, come i genitori dichiarino di scuotere i loro figli solo per calmarli, inconsapevoli della gravità di un simile intervento. Una corretta e completa informazione ai genitori e alle famiglie è quindi importante affinché un gesto, a volte inconsapevole o addirittura benevolo, non si trasformi in un grave danno per il neonato." |
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