Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.

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a cura di Maria Valentina Abate

UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)

Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario

Appena un terzo dei medicinali è stato testato su pazienti in età pediatrica

Virus sinciziale, senza immunità la fascia di bimbi tra 1 e 2 anni

HIV in ambito pediatrico: la presa in carico del paziente in Italia

Minore aspettativa di vita per i bimbi nati al Sud

Tosse, come gestire questo sintomo negli adulti e nei bambini

UNICEF: un suicidio di adolescenti ogni 11 minuti nel mondo

Bullismo e cyberbullismo: un affare non soltanto della cronaca

Antibiotico-resistenza: a rischio anche i neonati

Tumori al cervello nei bambini: una cura mirata aumenta l’aspettativa di vita

Bambini: pisolino pomeridiano sì o no? Consigli per i genitori


Appena un terzo dei medicinali è stato testato su pazienti in età pediatrica

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E così i pediatri sono spesso costretti a prescrivere farmaci basandosi su dati di sicurezza ed efficacia incompleti o assenti, come conseguenza della carenza di specifici studi in questa fascia di età. A puntare i riflettori sulle “carenze” dei farmaci in pediatria è la Società Italiana di Farmacologia, perché “i bambini non sono piccoli adulti”.

Il primo elemento da chiarire quando si affronta il delicato tema dell’uso dei farmaci in pediatria è che i bambini non sono piccoli adulti. Il soggetto pediatrico è, infatti, in continua evoluzione e presenta specificità proprie che lo distinguono dall’adulto anche nella risposta al trattamento farmacologico. Un concetto da tenere bene a mente per evitare molti dei più frequenti errori commessi nel somministrare i medicinali ai bambini. Come, ad esempio, la riduzione del dosaggio di un farmaco, impiegato comunemente negli adulti, in base al peso corporeo e all’età del piccolo paziente, senza però avere informazioni corrette sull’efficacia e la sicurezza del trattamento in età pediatrica.
A puntare i riflettori sulle “carenze” dei farmaci in pediatria è la Società italiana di farmacologia in occasione del suo 41° Congresso Nazionale, in programma dal 16 al 19 novembre a Roma.
“Che i bambini non siano piccoli adulti - spiega Alessandro Mugelli, già Presidente SIF - è dimostrato dal fatto che non solo molti parametri farmacocinetici, ma anche la farmacodinamica possano modificarsi durante la crescita. Nella popolazione pediatrica, crescita e cambiamenti evolutivi influenzano l’assorbimento, la distribuzione, il metabolismo e l’eliminazione dei farmaci (ADME); così come influenzano gli aspetti di farmacodinamica, variando l’efficacia e la sicurezza della terapia. In ambito pediatrico vanno, inoltre, considerati numerosi fattori, tra cui: l’età, il peso corporeo, la superficie corporea, l’età gestazionale e il peso alla nascita per i neonati, la razza o etnia, il sesso”.
Nonostante la terapia farmacologica giochi un ruolo importante nella cura e nella prevenzione in età pediatrica, i pediatri sono spesso costretti a prescrivere farmaci basandosi su dati di sicurezza ed efficacia incompleti o assenti, come conseguenza della carenza di specifici studi in questa fascia di età.
“Non più di un terzo dei farmaci attualmente prescritti ai bambini è stato, infatti, specificamente studiato per la sicurezza e l’efficacia in età pediatrica - prosegue il Prof. Mugelli - ciò è particolarmente rilevante considerando che le tappe fondamentali del destino del farmaco nei bambini, dall’assorbimento all’eliminazione, sono diverse qualitativamente e quantitativamente rispetto agli adulti e che i differenti gradi di sviluppo degli apparati bersaglio richiedono una terapia farmacologica individualizzata che non sempre può essere adeguatamente ricavata dai dati disponibili per la popolazione adulta”.
A testimonianza del continuo impegno della Società in quest’ambito, nel 2017 la SIF ha creato un Gruppo di Lavoro di Farmacologia Pediatrica che si occupa di: farmacocinetica e farmacologia clinica in età pediatrica; valutazione di efficacia e sicurezza dei farmaci in età pediatrica; valutazione preclinica dei meccanismi farmacodinamici e farmacocinetici dei farmaci in età evolutiva.


Virus sinciziale, senza immunità la fascia di bimbi tra 1 e 2 anni

SIMRI: fragili non solo piccolissimi per le restrizioni della pandemia

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Non solo i piccolissimi sono più fragili rispetto al virus respiratorio sinciziale (VRS).
L’assenza del virus durante l’inverno 2020-2021, dovuta alle restrizioni pandemiche, “ha creato un gruppo (coorte) di bambini tra 1 e 2 anni senza immunità naturale verso il VRS. Nel prossimo autunno inverno potrebbero infettarsi e andare incontro a forme respiratorie gravi, ora che non ci sono più le restrizioni”.
A lanciare l’allarme è il presidente SIMRI (Società Italiana Malattie Respiratorie Infantili) Fabio Midulla, in occasione del 26° Congresso della Società scientifica a Palermo, confermando quanto già riportato da uno studio su Lancet.
Già lo scorso anno si era verificato ricorda la SIMRI “il fenomeno anomalo dell’aumento dei casi di infezione da VRS tra i bambini di 2-3 anni che non avevano incontrato il virus nel primo anno di vita a causa delle restrizioni Covid e avevano manifestato episodi di polmonite e di bronchite asmatica moderate-gravi. Normalmente la stagione di punta è tra dicembre e febbraio, ma dagli Usa giungono notizie che molti ospedali sono già alle prese con numerosi casi di ricoveri dovuti al VRS”. “Sfortunatamente a tutt’oggi - aggiunge Midulla - non è disponibile un vaccino, ma sono in commercio anticorpi monoclonali per la prevenzione dell’infezione rivolti ai bimbi a maggior rischio di forme gravi, come i piccoli prematuri, che nell’ultima stagione hanno potuto giovarsi solo parzialmente di questi farmaci data la inaspettatamente precoce circolazione del virus. In attesa di avere a disposizione vaccini da utilizzare nelle donne al terzo trimestre di gravidanza, nel settembre 2022 l’EMA ha approvato l’utilizzo per tutti i neonati di un nuovo anticorpo monoclonale rapido nell’agire, con una lunga durata di azione e che offre un’ottima protezione”. La SIMRI ricorda l’importanza delle regole di prevenzione, quali lavarsi le mani prima di toccare il bambino, usare la mascherina in caso di raffreddore, evitare ambienti chiusi e affollati, favorire l’allattamento materno ed evitare l’esposizione al fumo. Ogni anno il VRS è causa di infezioni respiratorie in più di 33 milioni di bimbi sotto i 5 anni, determinando il ricovero in oltre 3 milioni e mezzo con infezioni respiratorie gravi.


HIV in ambito pediatrico: la presa in carico del paziente in Italia

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Le poche centinaia di bambini con HIV in Italia vengono seguiti con competenza nei Centri pediatrici specialistici, ciononostante restano ancora alcune sfide da superare per una presa in carico ottimale di questi pazienti, come ci racconta l’infettivologa e pediatra Vania Giacomet.

Il numero di bambini con HIV è diminuito drasticamente negli ultimi anni in Europa e in Italia grazie alla terapia antiretrovirale che, assunta in gravidanza dalle donne sieropositive, impedisce la trasmissione verticale (da madre a bambino) del virus. Le poche centinaia di bambini con HIV nel Paese vengono seguiti con competenza nei Centri pediatrici specialistici; ciononostante restano ancora alcune sfide da superare per una presa in carico ottimale di questi pazienti, come ci racconta l’infettivologa e pediatra Vania Giacomet, Professoressa di Pediatria all’Università di Milano.
“L’Italia è uno dei Paesi con minore incidenza di trasmissione verticale dell’HIV in Europa e nel mondo. Questo rispecchia il panorama europeo in generale, che è molto diverso da quello dell’Africa subsahariana o di alcuni Paesi dell’Asia dove oltre a esserci una trasmissione verticale si verifica anche una maggiore trasmissione orizzontale del virus tra adolescenti”, spiega Giacomet. “Le linee guida più recenti consigliano di trattare i bambini con HIV il più precocemente possibile”.
Una difficoltà tipica del trattamento dell’infezione in età pediatrica sta nel fatto che la terapia consiste nella somministrazione di tre farmaci che devono essere assunti singolarmente dal paziente, contrariamente a quanto accade per i pazienti adulti che possono beneficiare di combinazioni a dosi fisse e che assumono in un’unica pillola i tre principi attivi. “Per i bambini non è ancora disponibile un farmaco che racchiude in sé i tre principi attivi, finché questi non raggiungono i 20 chili di peso (quindi parliamo di bambini di 5 o 6 anni). La terapia consiste nella somministrazione, da parte del genitore o del caregiver, di tre farmaci (pastiglie o sciroppi) anche più volte al giorno”.
La professoressa ricorda che negli ultimi tre decenni le terapie per l’HIV pediatrico hanno subito un’importante evoluzione. Erano assenti all’inizio degli anni Novanta, poi sono stati messi a punto farmaci sgradevoli (al gusto) e difficili da somministrare. “Ora le Aziende ci stanno aiutando ad andare verso ‘il farmaco ideale’, che richiede una singola somministrazione al giorno, semplice da somministrare, che non sia sgradevole da ingerire, che sia dispensabile in acqua (per evitare ai bambini piccoli l’ingestione di una pillola) e che porti al minor numero possibile di effetti collaterali”.
Un altro aspetto critico della gestione della malattia nei bambini con HIV è la comunicazione della diagnosi. “Già dall’età prescolare il bambino dimostra un’avversione ad assumere i farmaci. È difficile capire perché proprio lui, e non gli altri bambini, deve prendere una medicina tutti i giorni. I pediatri hanno il compito di parlare al bambino della malattia, magari con il supporto di uno psicologo e sicuramente coinvolgendo la famiglia del paziente”, continua Giacomet. “Quando il paziente è piccolo usiamo termini molto semplici, dicendogli ad esempio che ha un’infezione che colpisce i soldatini che difendono il suo corpo dalle malattie. Poi con gli anni i soldatini diventano i globuli bianchi, poi i linfociti T-helper e il virus viene chiamato con il suo nome: HIV. In questo lungo processo di comunicazione è fondamentale trasmettere al paziente i messaggi positivi associati alla terapia. L’assunzione regolare del farmaco offre al bambino la possibilità di vivere una vita lunga, di fare attività sportiva, di andare a scuola e “da grandi” avere bambini senza correre il rischio di trasmettere loro l’infezione”.


Minore aspettativa di vita per i bimbi nati al Sud

Save the Children: la speranza di buona salute ha un gap di 12 anni con Nord

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È di 3,7 anni in meno l’aspettativa di vita di un bambino che nasce a Caltanissetta rispetto a uno che è nato a Firenze.
Una differenza di quasi quattro anni tra nord e sud. Ma non è l’unico divario.
Un bambino nato nel 2021 in provincia di Bolzano ha un’aspettativa di vita in buona salute di 67,2 anni. Mentre uno nato in Calabria di 54,2 anni.
Un gap di ben 12 anni. E tra le bambine del sud il divario aumenta ancora di più, con una differenza di 15 anni. A lanciare l’allarme è Save The Children durante la presentazione della XIII edizione dell’Atlante dell’Infanzia (a rischio) 2022, dal titolo “Come stai?”.
A pesare sulla salute e sul benessere psicologico dei minori sono povertà e disuguaglianze che si sono accentuate soprattutto dopo la pandemia. Sono quasi 1 milione e 400mila i bambini in Italia in povertà assoluta, in questo momento di crisi economica, e che sono “poveri anche di salute”. Secondo un’analisi di Coldiretti, sulla base dei dati raccolti dall’Atlante, 600mila bambini al di sotto dei 15 anni hanno avuto bisogno di aiuto per bere il latte o mangiare. Un incremento del 12% in un anno. Questo a causa della povertà e dell’aumento dell’inflazione che ha messo in difficoltà le famiglie.
Tra i dati riportati nella pubblicazione c’è anche quello che riguarda i bambini nella fascia 3-10 anni in sovrappeso, oppure obesi, che rappresentano il 35,2%, mentre le bambine il 33,7%.
Un bambino su quattro, poi, non pratica sport. Inoltre, la povertà alimentare colpisce un bambino su 20. Nonostante questo dato, la mensa scolastica non è un servizio essenziale gratuito per tutti i bambini.
Save the Children ha ricordato che a essere insufficiente è anche la rete sanitaria territoriale. Mancano 1400 pediatri. Un focus poi andrebbe posto sulla salute mentale di adolescenti e preadolescenti, hanno sottolineato. Ad aver influito negativamente, peggiorando la situazione, è stata ancora la pandemia. Secondo il monitoraggio, in nove Regioni italiane i ricoveri per patologia neuropsichiatrica infantile sono cresciuti del 39,5% in due anni, tra il 2019 e il 2021. Proprio quelli nel pieno del Covid-19. Le prime due cause di ospedalizzazione sono psicosi e disturbi del comportamento alimentare, ma in tutta Italia ci sono soltanto 394 posti letto in degenza in questo reparto.
“Nel panorama mondiale, il nostro servizio sanitario nazionale si posiziona come un’eccellenza per la cura dei bambini, ma questo non deve spingerci a ignorare i divari e le criticità - ha spiegato il presidente di Save the Children Italia, Claudio Tesauro -. I dati dell’Atlante mostrano la necessità di mettere la salute dei bambini al centro di tutte le scelte politiche, dalla tutela dell’ambiente urbano alle mense scolastiche, fino agli spazi per lo sport e il movimento, con una particolare attenzione al tema della salute mentale degli adolescenti”.
“Credo che sia una priorità assoluta per una società proteggere la salute dei minori, su cui mettere tutto il nostro impegno” - ha commentato all’ANSA il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro - La dimensione del fenomeno dei bambini in povertà assoluta è significativa, per noi diventa una priorità su cui investire e prestare attenzione”.


Tosse, come gestire questo sintomo negli adulti e nei bambini

Non è una malattia, ma condiziona pesantemente le giornate. Grassa o secca, quali farmaci sono indicati e in quali casi serve il cortisone

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Quel pizzicore alla gola che parte piano piano e poi si trasforma nel sonoro colpo di tosse. A chi non è successo, in chiesa o in una sala d’attesa, di dover rompere il silenzio con quel fragore non trattenibile? Per non parlare poi di quando capita ai bambini, soprattutto per quelli in età scolare e prescolare per i quali la tosse sembra spesso essere diventata una fastidiosa quanto onnipresente compagna di avventura.
La tosse ha un potere eccezionale, potrebbe addirittura accadere che ci venga da tossire solo per il fatto di aver sentito qualcun’altro che lo sta facendo! Studi condotti presso l’Università del Maryland hanno infatti rivelato che si può manifestare questo sintomo in risposta a qualcuno che ne ha uno simile nelle nostre vicinanze. Sì, esatto, proprio come succede quando si inizia a sbadigliare o a ridere perché la fa qualcuno accanto a noi.

Tosse, non una malattia ma un sintomo: come trattarla correttamente
Il meccanismo alla base di questo comportamento non è noto, ma dai primi approfondimenti si può affermare che si tratta di un processo imitativo collegato alla percezione del cervello che quando registra un rumore è tendenzialmente portato a riprodurlo. Sentire un colpo di tosse mette in allerta le nostre funzioni cerebrali che lo percepiscono come un segnale di allarme. Come a dire: “nell’aria c’è qualcosa di tossico che va allontanato”. Ed ecco che in maniera inconscia scatta la tosse.
A onor del vero negli ultimi due anni, complici le distanze e le mascherine indossate dalla maggior parte delle persone e sia all’aperto che negli spazi al chiuso, la tosse è stata molto meno presente sia fra gli adulti sia fra i bambini. Ma quest’anno è tornata prepotente protagonista nella vita di grandi e piccoli.

Un segnale che indica un disturbo in atto
La tosse, in realtà, non è una malattia, ma rappresenta il sintomo che più di frequente si accompagna alle malattie delle vie respiratorie e rappresenta la terza causa di richiesta di controllo medico in età pediatrica. Non è una malattia perché rappresenta un meccanismo di riflesso dell’organismo che tenta di allontanare dall’albero respiratorio corpi estranei o un eccesso di secrezioni.
l meccanismo si innesca per via della stimolazione di specifici recettori dislocati dalla laringe fino ai bronchi a opera degli agenti più diversi non solo virus e batteri, ma anche inquinanti ambientali, muffe e allergeni. A secondo dell’agente che va a sollecitare questi recettori si può ipotizzare che la tosse compaia su base virale, allergica, batterica o sia sostenuta da inquinanti ambientali o dal fumo di sigaretta.

Tosse secca
Una tosse secca che compare all’improvviso deve far sospettare che sia sostenuta da un’agente virale o sia su base allergica. La tosse secca, inoltre è anche il sintomo che spesso si accompagna al reflusso gastro esofageo con concomitante arrossamento della gola e rigurgiti acidi.
“Il problema principale della guarigione della tosse sta nel fatto che non essendo una malattia, ma un sintomo la sua soluzione passa dalla risoluzione del disturbo che la causa - spiega Antonio Clavenna medico farmacologo del laboratorio di Farmacoepidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano che aggiunge- Nel caso di una tosse associata a reflusso, per esempio, occorre curare il reflusso per risolvere il sintomo. A oggi non ci sono prove scientifiche solide a supporto dell’efficacia dei farmaci antitosse.
Al contrario, alcuni studi suggeriscono che alcuni rimedi “della nonna”, come per esempio il latte e miele, avrebbero un beneficio paragonabile se non addirittura superiore a quello dei medicinali antitosse”. Se, dunque la tosse si è instaurata in seguito a un’infezione virale, la risoluzione è spontanea e richiede alcuni giorni. Nel caso di una tosse scatenata da un’infezione batterica potrebbe essere necessario ricorrere all’uso di un antibiotico.
“Di solito quando il sintomo principale è quello di una tosse secca è bene sapere che vi è un’irritazione delle vie aeree, ma non vi è un accumulo di catarro e quindi in questa fase i mucolitici non trovano indicazione” chiarisce l’esperto.

Utilità dell’aerosol
“I medici spesso prescrivono farmaci da somministrare con il nebulizzatore (la “macchinetta per l’aerosol”) in caso di tosse e raffreddore: cortisonici, broncodilatatori (per esempio salbutamolo) o mucolitici. Non ci sono, però, prove scientifiche sull’efficacia di queste terapie, se non in casi particolari come per esempio la presenza di asma o di episodi ricorrenti di bronchite asmatica. - chiarisce ancora il dottor Clavenna - Nel caso dei cortisonici, uno studio condotto qualche anno fa proprio presso l’Istituto Mario Negri con 40 pediatri di famiglia italiani e al quale ho contribuito personalmente, ha coinvolto 521 bambini italiani. Nello studio non sono state rilevate differenze nella durata del sintomo tosse tra il gruppo che aveva ricevuto il farmaco attivo e quello trattato soltanto con la soluzione fisiologica”.
Proprio riguardo all’uso dei cortisonici nel trattamento della tosse il dottor Clavenna precisa anche: “Se si esclude la presenza di asma, di bronchite asmatica ricorrente o di allergie, i cortisonici non hanno indicazione per il trattamento della tosse. Anche in questo caso ci sono medici che li prescrivono nella convinzione, non supportata da studi scientifici, che siano utili nel curare l’infiammazione delle vie aeree”.

Tosse grassa
Può anche succedere che dopo qualche giorno di tosse secca la tosse cambi e si passi a una forte e catarrosa: il muco ristagna nelle vie aeree a segnale che è in atto un processo infiammatorio spesso, ma non sempre, sostenuto da agenti batterici. L’interessamento batterico, di solito è testimoniato, dalla comparsa di muco giallo verdastro. In questi casi, dopo controllo medico spesso è utile ricorrere all’uso di antibiotici e di solito nell’arco di 5-10 giorni, la tosse va scemando così come la consistenza delle secrezioni.
Fino a qualche decennio fa, si faceva un grande uso soprattutto in età pediatrica, di farmaci mucolitici per via rettale. Oggi sotto i due anni di età non si possono somministrare farmaci mucolitici né per via rettale né orale poiché questi farmaci dalla nascita fino ai due anni provocano un aumento delle secrezioni bronchiali che i più piccoli non riescono a espellere con la tosse proprio per l’anatomia stessa delle vie respiratorie. I muchi dunque, anziché essere espulsi ristagnano con possibile ostruzione respiratoria.
Ecco perché ne bambini con meno di due anni, fermo restando che è sempre necessario un consulto con il proprio pediatra, in casa di tosse grassa si dovrebbero effettuare di preferenza frequenti lavaggi nasali. Il muco che si libera in questo modo dovrebbe essere, nei limiti del possibile e fino a quando il piccolo non impara a soffiarsi il naso, aspirato dopo il lavaggio. Il bambino andrebbe idratato abbondantemente e se l’età lo permette è consigliabile effettuare inalazioni caldo umide che svolgono un effetto emolliente locale e possono favorire l’eliminazione delle secrezioni.
Quanto detto per i più piccoli naturalmente va bene anche per gli adulti: ben vengano i lavaggi fatti con soluzione salina o ipertonica per favorire l’eliminazione del muco in eccesso, i lavaggi con il rinowash e l’assunzione di mucolitici. “Anche per i mucolitici mancano, in generale, dati scientifici solidi sulla loro efficacia, se non per alcune patologie come la fibrosi cistica. Nei casi più frequenti di tosse, per rendere più fluido il muco può essere sufficiente aumentare la quantità di liquidi assunta (acqua, succhi di frutta, latte e miele...)”.

Tosse da Covid
La pandemia da SARS-CoV-2 ha insegnato a temere anche un altro tipo di tosse, quella direttamente connessa con quest’infezione che di solito si manifesta come secca, irritativa, persistente. “La gestione della tosse in caso di Covid-19 non è differente dalla gestione per altre infezioni delle vie aeree. Se è “secca” si può eventualmente ricorrere (se il medico è d’accordo) a un farmaco sedativo, pur con i limiti già accennati, mentre se è presente catarro in prima battuta si può aumentare l’apporto di liquidi ed effettuare lavaggi nasali o “suffumigi” e se questo non è sufficiente si può valutare con il medico il ricorso a un farmaco mucolitico”, conclude il dottor Clavenna.


UNICEF: un suicidio di adolescenti ogni 11 minuti nel mondo

Uno su 7 soffre di salute mentale. Il 50% è triste o angosciato

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Nel mondo quasi 46.000 adolescenti muoiono a causa di suicidio ogni anno - più di uno ogni 11 minuti.
La maggior parte delle 800.000 persone che muoiono per suicidio ogni anno sono giovani e questa è la quinta causa di morte tra i 15 e i 19 anni. Sono i dati diffusi dall’UNICEF in occasione della Giornata Mondiale dell’Infanzia e dell’Adolescenza (20/11), dedicata al tema della salute mentale e psicosociale.
Nel mondo 1 adolescente su 7 fra i 10 e i 19 anni soffre di problemi legati alla salute mentale e secondo i dati di un sondaggio il 50% si sente triste, preoccupato, o angosciato.
L’UNICEF Italia ha lanciato la petizione “Salute per la mente di bambini e adolescenti”, che ha raccolto oltre 13.000 adesioni. L’obiettivo è quello di mobilitare l’opinione pubblica affinché sostenga le raccomandazioni che rivolge ai Ministri competenti in materia, per garantire investimenti e azioni di qualità volte a supportare e proteggere la salute mentale di ogni bambina, bambino e adolescente.
Quasi la metà di tutte le problematiche legate alla salute mentale, denuncia l’UNICEF, iniziano entro i 14 anni di età e il 75% di tutte le problematiche legate alla salute mentale si sviluppano entro i 24 anni, ma la maggior parte dei casi non viene individuata e non viene presa in carico.
Gli effetti della pandemia da Covid-19 hanno peggiorato la situazione. Sul tema l’UNICEF Italia ha lanciato un sondaggio, realizzato sulla piattaforma digitale indipendente U-Report sostenuta dalla stessa associazione, al fine di rilevare la percezione di benessere psicosociale e salute mentale fra un campione di adolescenti di età compresa fra i 10 e i 19 anni; su 194 rispondenti: il 28% si sente ottimista; il 12% triste; il 14% preoccupato; il 14% angosciato; e il 10% frustrato.
Fra le circostanze che causano apprensione le difficoltà economiche personali o della famiglia (17%), il senso di isolamento (19%), la distanza dalla famiglia e dagli affetti (8%), i litigi e tensioni all’interno della famiglia (7%), emergono come i fattori più preponderanti. Tuttavia, il 41% degli adolescenti afferma di non aver richiesto aiuto a nessuno, il 22% di aver cercato aiuto da coetanei e amici e l’11% ai familiari. L’11% dichiara di essersi rivolto presso psicologi presenti nelle scuole e nelle comunità e il 7% presso i servizi sociali e sanitari. Fra le ragioni per non aver richiesto aiuto, il 22% afferma di non ritenerlo necessario, il 10% di non sapere a chi rivolgersi, il 10% di temere di richiedere aiuto, e l’8% di avere timore del giudizio negativo degli altri. L’indagine rivela che gli adolescenti vorrebbero sentire parlare più spesso di salute mentale e benessere psicosociale dalle istituzioni (34%), dalle scuole (31%), dai famigliari (7%) e dai media (7%).


Bullismo e cyberbullismo: un affare non soltanto della cronaca

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Evocato in questi giorni anche dal ministro dell’Istruzione - al netto delle polemiche sull’umiliazione, conseguenza diretta della pena ipotizzata di assegnarli a lavori socialmente utili - quale strumento di maturazione, di riscatto e di responsabilizzazione, il fenomeno del bullismo presenta dei costi ormai non più trascurabili e che coinvolgono svariati settori della nostra società. Non ultimo, proprio quello sanitario.

Il meritorio progetto su bullismo e cyberbullismo dal titolo “Una buona occasione” presentato lo scorso 22 novembre 2022 al Comune di Roma dal prof. Aldo Grauso, con la collaborazione di svariati professionisti ha registrato molte adesioni.
Il prof. Grauso, coordinatore del progetto e docente di psicologia della devianza presso l’Unicusano è stato affiancato da eminenti esperti dalla criminologa, al politico, al rappresentante del mondo forense, alla dirigenza scolastica, alla musica.
Assordante, però, l’assenza del mondo sanitario.
Eppure, questo dilagante fenomeno che sta sempre più caratterizzando il nostro tempo ha riflessi di non poco momento sulla salute, e non soltanto degli adolescenti, bensì dell’intero entourage familiare, amicale e financo sociale.
Evocato in questi giorni anche dal ministro dell’Istruzione - al netto delle polemiche sull’umiliazione, conseguenza diretta della pena ipotizzata di assegnarli a lavori socialmente utili - quale strumento di maturazione, di riscatto e di responsabilizzazione, il fenomeno del bullismo presenta dei costi ormai non più trascurabili e che coinvolgono svariati settori della nostra società.
Non ultimo, proprio quello sanitario.
È ben vero che i maggior costi, nell’immediato, sono economici e sopportati dalla giustizia, essendo il 3% del bilancio di questo dicastero riservato alla giustizia minorile e di comunità, ma altrettanto vero è che, in via mediata, le devianze giovanili generano altri costi che differenti settori sono tenuti a sopportare.
Anche se quello prontamente percepibile è il costo sociale - fatto di allentamento dei legami che caratterizzano una società con l’individuo parte di essa, conscio di poterne condividere i problemi, tanto più necessario laddove maggiori sono le condizioni di deprivazione sociale o familiare - in realtà, molteplici altri, di natura sanitaria, ne scaturiscono.
Le conseguenze che si registrano sulla salute dell’adolescente a causa del bullismo spaziano dai disturbi d’ansia e dell’umore, agli istinti suicidari o, per lo meno, autolesionistici, passando per il deficit dell’attenzione, all’iperattività, al disturbo della condotta in genere, al DOP, senza dimenticare la dipendenza da alcool e droghe.
Disturbi di varia natura che per interessare quelli somatici e della personalità, nonché quelli psicotici e/o da dipendenze di vario genere, non si limitano all’età adolescenziale che li genera ma, ce lo dicono gli esperti, fanno registrare la loro significativa presenza anche in età molto più avanzata fino a diventare una caratteristica costante ad es., nella gestione delle relazioni sociali o nel modo professionale con, in generale, dei veri e propri problemi costanti di salute fisica.
Se, quindi, quei costi, in via preventiva o concorrente allo sviluppo del fenomeno, si registrano a carico di strutture di un certo tipo - quali, per l’appunto, la giustizia e la scuola per gli specifici compiti assegnati dalla Legge 29 maggio 2017 n. 71 di esperire sinergiche azioni di prevenzione e di intervento precoce - non si possono sottacere quelli a carico delle strutture sanitarie per il trattamento delle patologie che ne derivano in via stabile e continuativa in età avanzata a corredo delle vessazioni subite nell’età adolescenziale.
Allora, se la c.d. salute mentale positiva degli alunni - attuata mediante il controllo dell’aggressività, l’autostima, il potenziamento della capacità di autoregolazione delle emozioni, di definizione di obiettivi personali, di problem solving e di abilità relazionali, capaci di prevenire discriminazione, marginalità sociale e persecuzione, produttori di forme di aggressività che incidono ineluttabilmente sulla personalità e sulla salute mentale dei soggetti coinvolti - è assegnata alla scuola, nondimeno, in caso di fallimento o minore incisività di tali interventi, sarà la sanità pubblica a doversene far carico, intervenendo a curare le patologie discendenti che non possono non considerarsi quale costo per l’intera sanità pubblica e, quindi, per la collettività.
D’altronde quello alla salute è forse il diritto di maggiore importanza, tanto da essere previsto e tutelato persino dalla nostra Carta costituzionale e, come tale, non negoziabile.
Per questo il legislatore ha voluto, con il provvedimento normativo in tema di prevenzione e contrasto al fenomeno del cyberbullismo, anche un coinvolgimento del mondo sanitario laddove all’art. 3 prevede, tra gli altri, la compresenza dell’amministrazione sanitaria nella redazione del piano integrato per la prevenzione e il contrasto al fenomeno per la cui realizzazione una sorveglianza costante in via preventiva, piuttosto che a posteriori, si appalesa quantomai molto più efficace.


Antibiotico-resistenza: a rischio anche i neonati

Ogni anno nel mondo 214mila decessi per infezioni resistenti agli antimicrobici

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Il dato è stato illustrato oggi dalla Società Italiana di Neonatologia. Circa la metà dei patogeni che causano infezioni neonatali severe risultano attualmente resistenti alla prima e alla seconda linea di trattamenti raccomandati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità. Il presidente SIN, Luigi Orfeo: “Il quadro che emerge è quello di una realtà in cui l’arsenale per combattere i microrganismi è sempre più povero di mezzi”.

Negli ultimi anni, il fenomeno dell’antibiotico resistenza (AMR) si è notevolmente aggravato, diventando una delle maggiori minacce mondiali. Si rischia che malattie infettive comuni possano tornare a essere difficilmente curabili e quindi fatali. L’Italia, assieme a Grecia e Portogallo, è tra i Paesi con i più alti tassi di mortalità da AMR, secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Nel nostro Paese la proporzione di infezioni resistenti agli antibiotici è passata dal 17% del 2005, al 30% nel 2015 e potrà raggiungere il 32% nel 2030, di molto superiore alla media OCSE.
L’allarme viene dalla Società Italiana di Neonatologia (SIN) nel corso della Settimana mondiale sull’uso consapevole degli antibiotici (World Antimicrobial Awareness Week - WAAW, 18-24 novembre 2022).
A preoccupare i neonatologi italiani è il fenomeno dell’antibiotico resistenza nei neonati, cioè quello dell’adattamento dei microrganismi all’ambiente, che determina la riduzione o l’eliminazione dell’efficacia di un agente antimicrobico. Sebbene si tratti di un meccanismo naturale, spiega la SIN, i principali fattori, sia del suo sviluppo, che della sua diffusione, sono “artificiali” e dovuti all’uomo e in particolare all’uso inappropriato ed eccessivo degli antibiotici, non solo tra gli esseri umani, ma anche tra gli animali da produzione alimentare.
Inoltre, la dimensione globale del problema dipende dal fatto che una volta che un patogeno sviluppa resistenza a un antibiotico, tale resistenza si diffonde molto rapidamente nel mondo, alimentata dalla mobilità delle popolazioni e dalla globalizzazione.
In ambito neonatale, negli ultimi anni c’è una crescente evidenza di infezioni dovute a patogeni resistenti agli antibiotici.
Le sepsi neonatali dovute a questi patogeni sono associate a tassi di sequele e mortalità significativamente più elevati. Globalmente si stima che 214.000 decessi ogni anno tra i neonati sono da attribuire a microrganismi resistenti agli antibiotici. Circa la metà dei patogeni che causano infezioni neonatali severe risultano attualmente resistenti alla prima e alla seconda linea di trattamenti raccomandati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità.
Gli antibiotici, infatti, sono il farmaco più comunemente utilizzato nelle Terapie Intensive Neonatali (TIN) rappresentando un terzo della top 10 dei medicinali più utilizzati nelle TIN. Purtroppo, anche se negli ultimi anni i neonatologi hanno iniziato a valutare criticamente l’utilizzo degli antibiotici, la sfida che riguarda l’ottimizzazione del loro uso in ambito neonatale rimane significativa.
Tutt’ora, ricorda la SIN, più del 75% dei neonati con peso inferiore ai 1500 g e più dell’80% di quelli con peso < 1000 g vengono sottoposti alla nascita a terapia antibiotica, nel sospetto di una sepsi, pur essendo riportata in letteratura una incidenza della sepsi precoce che varia da 0 a 7%. Dati recenti della letteratura evidenziano, inoltre, che un uso non necessario e prolungato degli antibiotici, durante la prima settimana di vita nei neonati pretermine, aumenta il rischio di insorgenza di una infezione tardiva, di enterocolite necrotizzante o di morte.
Secondo il rapporto di Global Research on Antimicrobial Resistance pubblicato nel 2022 da The Lancet, che ha analizzato i dati da 204 Paesi, nel 2019 oltre 1,2 milioni di persone sono decedute per infezioni causate da batteri resistenti a diversi antibiotici e circa 5 milioni di decessi sono associati a fenomeni di AMR.
Stime precedenti pubblicate nella Review on Antimicrobial Resistance dell’UK Department of Health prevedevano, entro il 2050, 10 milioni di morti all’anno a causa di infezioni batteriche da patogeni resistenti. I dati però del rapporto pubblicato su The Lancet ci indicano che siamo molto più vicini a questa cifra rispetto a quanto si pensasse.
Oltre l’impatto sanitario, l’AMR ha anche un impatto economico che secondo la Banca Mondiale, potrebbe essere peggiore della crisi finanziaria del 2008-2009. La Review on Antimicrobial Resistance stima i costi da AMR entro il 2050 a circa 100 trilioni di dollari, invece, il rapporto dell’OCSE riporta che affrontare le complicazioni di AMR potrebbe costare fino a 3,5 miliardi di dollari l’anno in media tra i 33 Paesi analizzati e 13 miliardi di dollari in Italia fino al 2050.
“Le strategie da mettere in atto, per arginare questa silente pandemia in neonatologia, non sono diverse da quelle proposte per la popolazione generale”, afferma il presidente della Società Italiana di Neonatologia (SIN), Luigi Orfeo. “Il quadro che emerge è quello di una realtà in cui l’arsenale per combattere i microrganismi è sempre più povero di mezzi. I nuovi antibiotici non risolveranno definitivamente il problema, perché perderanno la loro efficacia, dopo un certo periodo di utilizzo, a causa di batteri resistenti. Lo strumento più importante per la limitazione della AMR è la prevenzione nell’ambito ospedaliero, attraverso il corretto uso degli antibiotici e strategie di prevenzione e controllo delle infezioni, prima fra tutte l’igiene delle mani, che dovrebbe continuare a essere fortemente incentivata. Ogni ospedale dovrebbe adottare un Antibiotic Stewardship Program, con la formazione di un gruppo multidisciplinare che guidi i medici nell’uso consapevole degli antibiotici. Se non si prendono subito provvedimenti adeguati, corriamo il rischio di ritrovarci nell’era pre-antibiotica degli anni Trenta e in un mondo senza antibiotici”.


Tumori al cervello nei bambini: una cura mirata aumenta l’aspettativa di vita

Per il glioma inoperabile, con il farmaco target sale da 12 a 24 mesi

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Una terapia sperimentale basata su farmaci ‘target’, cioè mirati, aumenta da 12 a 24 mesi l’aspettativa di vita dei bambini colpiti da glioma diffuso della linea mediana, un tumore cerebrale molto aggressivo e non operabile.
Il risultato arriva da uno studio basato sulla caratterizzazione genetica del tumore di ciascun paziente, condotto da ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e pubblicato su Therapeutic Advances in Medical Oncology.
I gliomi diffusi della linea mediana sono tumori tipici dell’età pediatrica caratterizzati da mutazioni della proteina H3K27M.
Si sviluppano nelle strutture mediane del cervello (ponte), che regolano funzioni vitali e si diffondono rapidamente.
In Italia vengono diagnosticati 20-25 casi pediatrici l’anno con un picco tra 5 e 10 anni di età, e la sopravvivenza media è di appena 9 -12 mesi. Lo studio, sostenuto dall’Associazione ‘Il coraggio dei Bambini’, ha coinvolto 25 pazienti ed è stato basato sullo studio delle caratteristiche genetiche del tumore di ogni paziente: porzioni di tumore ottenute tramite biopsia sono state analizzate alla ricerca di anomalie genetiche che potessero essere il bersaglio di farmaci già disponibili. Nei pazienti trattati con la terapia sperimentale (oltre a quella standard) la sopravvivenza media è passata da meno di 12 mesi dalla diagnosi a 24 mesi. Per questi tumori spiega Angela Mastronuzzi, responsabile della struttura di Neuro-Oncologia del Dipartimento Oncoematologia e Terapia Cellulare, “oggi non esiste una cura ma possono esprimere altre anomalie genetiche contro cui abbiamo delle armi. Consentire ai bambini malati di vivere più a lungo significa dare loro una chance in più per beneficiare di nuovi trattamenti via via disponibili”.


Bambini: pisolino pomeridiano sì o no? Consigli per i genitori

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Il riposino pomeridiano rappresenta un aspetto saliente della maturazione cerebrale e dello sviluppo cognitivo, che non è però ancora del tutto svelato: né per quelli che sono i meccanismi alla base né per quella che dovrebbe essere la durata di questo periodo. E tra le famiglie tendono spesso a crearsi due fazioni.

I genitori, quando possibile, continuino ad approfittarne per ricaricare le batterie. Se il proprio figlio continua a effettuare il riposino anche a ridosso dell’inizio della scuola primaria, non vi è alcun problema. Semplicemente il loro cervello non è ancora pronto per abbandonare un’abitudine che ha più vantaggi che altro: concorrendo all’apprendimento e allo sviluppo della memoria. E dunque da non ostacolare, anche se i cugini e gli amici coetanei hanno smesso già da tempo di dormire durante il primo pomeriggio.
Possono essere riassunte in questo modo le conclusioni di uno studio pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, in un numero interamente dedicato alla medicina del sonno, da due ricercatrici dell’Università del Massachusetts: Rebecca Spencer e Tracy Riggins.

Come è strutturato il sonno dei bambini nei primi anni di vita?
I bambini possono trascorrere dormendo fino alla metà dei loro primi anni di vita. I neonati dormono anche fino a venti ore al giorno, con il sonno distribuito su più periodi (polifasico). Il riposo notturno diventa distinto dai sonnellini diurni tra i quattro e i sei mesi nella maggior parte dei bambini, sebbene il lattante continui a riposare in almeno tre momenti distinti della giornata: di notte, di mattina e di pomeriggio.
È tra il primo e il secondo anno di vita invece che il pisolino mattutino svanisce. E le ore di sonno si distribuiscono su due diversi momenti: la notte e il pomeriggio. E arriviamo così al dunque: fino a quando un bambino dovrebbe dormire dopo pranzo?

Pisolino sì o no? Non esistono regole valide per tutti
Non ci sono linee guida in questo senso: né in Europa né tanto meno al di là dell’Atlantico. Di conseguenza ogni famiglia si adatta a quelle che sono le abitudini del proprio figlio. C’è chi comincia ad abbandonare il riposino pomeridiano una volta finito di frequentare il nido e chi invece continua a non rinunciare alla pennichella nemmeno negli anni della scuola dell’infanzia.
Questa variabilità, su cui incidono anche fattori ambientali e culturali (a partire dalle abitudini dei genitori), porta spesso le famiglie a interrogarsi su quale sia la scelta da agevolare: meglio procrastinare l’abitudine al pisolino pomeridiano oppure no? Una risposta valida per tutti non esiste. Ma è importante sapere che non ci sono comportamenti giusti né sbagliati. Semplicemente ogni bambino ha il diritto di compiere il proprio percorso di crescita senza interferenze.

Durante il sonno si consolida l’apprendimento
Il riposino pomeridiano rappresenta un aspetto saliente della maturazione cerebrale e dello sviluppo cognitivo, che non è però ancora del tutto svelato: né per quelli che sono i meccanismi alla base né per quella che dovrebbe essere la durata di questo periodo. Sta di fatto che, durante l’infanzia, tra le famiglie tendono spesso a crearsi due fazioni. Quella di chi crea le condizioni affinché il proprio bambino dorma di pomeriggio, almeno quando è a casa. E quella di mamme e papà che preferiscono che i figli rimangano svegli dalla mattina alla sera: spesso convinti che in questo modo possano andare a dormire subito dopo cena.
In realtà sarebbe preferibile assecondare l’attitudine di ogni bambino. Spiega Viola Macchi Cassia, ordinario di psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università di Milano-Bicocca. “L’analisi condotta dalle colleghe statunitensi pone l’attenzione sulle differenze interindividuali e ci suggerisce che non è l’età cronologica a guidare il bisogno del bambino di dormire durante il giorno: bensì l’efficienza con cui apprende dalle esperienze quotidiane, che può variare da bambino a bambino anche in funzione della progressiva maturazione delle aree cerebrali responsabili dei processi di memorizzazione che, nei bambini fino all’età prescolare, sono localizzabili nell’ippocampo. Il pisolino serve a consolidare i ricordi delle esperienze vissute, che poco alla volta vengono poi trasferite alla corteccia: deputata alla conservazione della memoria a medio e a lungo termine. Questo passaggio avviene proprio durante il sonno e permette all’ippocampo di svuotarsi per immagazzinare nuove nozioni”.

L’attitudine a dormire è regolata anche dagli stimoli che un bambino riceve
Più che gli input riguardanti la regolazione del sonno e della veglia che giungono dai neuroni del nucleo soprachiasmatico che si trovano nell’ipotalamo, è dunque il grado di “pressione” a cui viene sottoposto il “database” di ogni bambino a portarlo a riposare oppure no.
Secondo Rebecca Spencer, docente di Scienze Psicologiche e Psicobiologia all’Università del Massachusetts, “quando l’ippocampo è più sviluppato, i bambini possono evitare di fare un pisolino e conservare i ricordi fino alla fine della giornata, quando il sonno notturno contribuisce all’elaborazione e al trasferimento di queste informazioni”. La stessa area cerebrale, in quei bambini che avvertono invece l’esigenza di riposare dopo pranzo, è “come un piccolo secchio, che va svuotato più di frequente per evitare che si rovesci”, è la metafora utilizzata alla studiosa: la prima firma di questa analisi condotta sulla cosiddetta transizione del pisolino dei più piccoli.

Il consiglio per i genitori: evitare qualsiasi forzatura
Di conseguenza, trattandosi di un momento così importante, “i bambini che ne hanno voglia non dovrebbero essere mai scoraggiati dall’effettuare il riposino pomeridiano”, chiarisce Macchi Cassia, che dirige il Bicocca Child&Baby lab, dove si studia lo sviluppo cognitivo ed emotivo nei primi tre anni di vita. “Ciò che è importante che i genitori sappiano è che l’abbandono del pisolino non avviene in tutti i bambini alla stessa età. E che, più in generale, la pennichella non rappresenta un tempo perso: nemmeno a scuola. L’apprendimento favorito dal sonno è infatti alla base dell’istruzione precoce. E non è detto che rimanere svegli al nido o alla scuola dell’infanzia comporti l’acquisizione di più informazioni da parte di chi non dorme rispetto a chi invece continua a riposare nel primo pomeriggio”.
Secondo le ricercatrici statunitensi, è fondamentale comunque che la ricerca in questo ambito prosegua: per capire anche come varino la fisiologia del sonno e lo sviluppo della memoria durante le fasi di abbandono del pisolino. L’importante, a ogni modo, è evitare qualsiasi forzatura. “Come conseguenza si potrebbe avere l’alterazione dei processi di apprendimento e memoria”, avvertono le Autrici dello studio.


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Abate MV (a cura di). Appena un terzo dei medicinali è stato testato su pazienti in età pediatrica - Virus sinciziale, senza immunità la fascia di bimbi tra 1 e 2 anni - HIV in ambito pediatrico: la presa in carico del paziente in Italia - Minore aspettativa di vita per i bimbi nati al Sud - Tosse, come gestire questo sintomo negli adulti e nei bambini - UNICEF: un suicidio di adolescenti ogni 11 minuti nel mondo - Bullismo e cyberbullismo: un affare non soltanto della cronaca - Antibiotico-resistenza: a rischio anche i neonati - Tumori al cervello nei bambini: una cura mirata aumenta l’aspettativa di vita - Bambini: pisolino pomeridiano sì o no? Consigli per i genitori. Medico e Bambino 2022;25(10) https://www.medicoebambino.com/?id=NEWS2210_10.html