Rivista di formazione e aggiornamento di pediatri e medici operanti sul territorio e in ospedale. Fondata nel 1982, in collaborazione con l'Associazione Culturale Pediatri.
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UOC di Pediatria, Ospedale di Treviglio (Bergamo)
Indirizzo per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it

Sommario
Carenza di farmaci essenziali, i pediatri scrivono all’AIFA sul caso amoxicillina: “Grave rischio per l’uso di alternative inappropriate”
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La richiesta: la mancanza di un farmaco essenziale deve prescindere dal mercato farmaceutico. L'Associazione Culturale Pediatri pone il problema all'attenzione dell'Agenzia italiana del farmaco affinché si possano attivare iniziative appropriate per sopperire alla carenza di farmaci essenziali.
Milano, 28 aprile 2023 – Da novembre 2022 persiste, e si è aggravata, la carenza di amoxicillina, farmaco di primo intervento in età pediatrica. Se a partire dal 2021 la carenza riguardava alcune formulazioni di uso ospedaliero, come riconosciuto anche dall'Agenzia italiana del farmaco (AIFA), da alcuni mesi la carenza a livello territoriale riguarda tutte le formulazioni di amoxicillina, come un fenomeno ciclico in alcune realtà, cronico in altre. Si tratta di un grave e serio problema, e non solo per l'attività pediatrica delle Cure primarie. Questo antibiotico è infatti la prima scelta per tutte le più comuni patologie infettive, come indicato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e da tutte le linee guida internazionali pertinenti. Questo perché è a basso costo, è efficace e ben tollerato, ha bassi rischi di effetti avversi e soprattutto contribuisce al controllo dell’antibiotico-resistenza, di cui l'Italia ha il triste primato in Europa, insieme alla Spagna. La resistenza agli antibiotici, lo ricordiamo, è ambientale e non individuale: il rischio non è solo per il singolo individuo, ma per tutta la comunità. Perché l’amoxicillina è introvabile? Probabilmente proprio per il suo basso prezzo, che non invoglia l’industria farmaceutica alla produzione.
Eppure la carenza di amoxicillina sta inducendo sempre più la prescrizione di inappropriate alternative terapeutiche, con l’aumentato rischio di effetti e reazioni avverse. Succede ad esempio per il trattamento di faringotonsillite da streptococco beta-emolitico di gruppo A, otite e polmonite batterica, infezioni target per l’uso di amoxicillina e dove ogni alternativa terapeutica rappresenta una scelta non appropriata. Ancora, in termini di antibiotico resistenza, pensiamo ai ceppi di Escherichia coli, sempre più resistenti all’amoxicillina + acido clavulanico, maggiormente e impropriamente utilizzato oggi nel contesto pediatrico italiano. Questo nonostante in un recente passato la stessa AIFA abbia sottolineato, giustamente, il carente utilizzo di amoxicillina, documentato anche durante il lockdown, raccomandando vivamente di orientare la prescrizione verso questo antibiotico laddove indicato.
“Da diversi mesi però, i pediatri sono costretti a fare esattamente il contrario, non potendo la scelta prescrittiva essere dettata dalla appropriatezza, ma dalla disponibilità delle farmacie”, spiega Stefania Manetti, presidente ACP. “Ci stiamo adeguando a una carenza sempre più cronica e diffusa, anche durante l’attuale epidemia di infezioni streptococciche che a sua volta ha acuito il problema della scarsa disponibilità e della inappropriatezza prescrittiva, con il rischio di trovarci di fronte a complicanze suppurative sempre più difficili da trattare, come già segnalato da alcuni reparti ospedalieri pediatrici”.
Sappiamo che il problema della scarsità di farmaci, tra cui l’amoxicillina, è mondiale. Siamo consapevoli dei diversi e complessi passaggi necessari per arrivare alla immissione in commercio di un farmaco, che passano dalla produzione del principio attivo al confezionamento, inscatolamento fino alla sua commercializzazione, passaggi che avvengono spesso in nazioni diverse. Tuttavia, la disponibilità di farmaci dichiarati essenziali dall’OMS dovrebbe essere assicurata non solo nella produzione ma anche nella distribuzione, e questo dovrebbe essere garantito da Agenzie regolatorie nazionali e internazionali.
L'appello che facciamo al Governo italiano e all'AIFA è dunque che vengano prontamente attivate iniziative efficienti affinché si sopperisca alla carenza di farmaci essenziali, che oggi limita la qualità delle cure di infezioni frequenti nella popolazione tutta. Una situazione che sta cronicizzando e deve essere prevenuta, sopperendo allo scarso interesse mostrato dall’industria verso una produzione troppo poco costosa per risultare economicamente interessante.
In mancanza di aziende disposte a continuare a produrla, dovremmo considerare le possibili alternative che può fornire un sistema sanitario universalistico: per esempio il nostro Paese dispone di uno stabilimento chimico farmacologico militare con una rinomata tradizione nella realizzazione di prodotti farmacologici di primo soccorso. Sembra invece che non ci sia troppo interesse a occuparsi di questo problema: i bambini sono forse troppo pochi e poco importanti da questo punto di vista, anche se il problema - come detto - non è solo pediatrico.
Per questo, l’Associazione Culturale Pediatri (ACP) - con il sostegno della Società Italiana di Pediatria (SIP) e della Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) – ha indirizzato queste stesse considerazioni a Giorgio Palù, presidente AIFA; e ad Anna Rosa Marra, sostituta direttrice generale AIFA, per chiedere con forza e urgenza una soluzione a questo problema, al fine di potersi prendere cura in maniera appropriata della salute delle bambine e dei bambini. Leggi la lettera.
La lentezza a tavola invoglia i bambini a mangiare frutta e verdura
Pasti più lunghi di 10 minuti aumentano il consumo di 100 grammi
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La fretta non è amica della sana alimentazione.
La conferma arriva da uno studio coordinato dal Max Planck Institute for Human Development di Berlino e pubblicato su Jama Network Open, secondo cui pasti più lunghi di una decina di minuti e rilassati incentivano i bambini a mangiare più frutta e verdura, senza avere ricadute sul consumo di altri alimenti.
“Un basso consumo di frutta e verdura aumenta il rischio di malattie croniche non trasmissibili.
Eppure i bambini di tutto il mondo mangiano molta meno frutta e verdura rispetto alla quantità raccomandata”, scrivono i ricercatori.
Il team ha verificato l’impatto della durata dei pasti sull’alimentazione coinvolgendo 50 coppie genitore-bambino.
Tutte le coppie sono state osservate nel contesto di due pasti identici in tutto, tranne che nella durata. Nel primo pasto, gli inservienti hanno annunciato che avrebbero sparecchiato dopo un tempo pari alla durata tipica dei loro pasti a casa (in media, circa 20 minuti). Nella seconda, il tempo è stato aumentato del 50% (circa 10 minuti aggiuntivi).
Quando c’era più tempo a disposizione i bambini mangiano più frutta senza che aumentasse il consumo degli altri alimenti; inoltre, magavano più lentamente e riportavano un maggiore senso di sazietà a fine pasto.
Si tratta di risultati importanti, spiegano i ricercatori: l’aumento nei consumi di frutta “corrispondeva a circa 1 porzione o 100 grammi in più. Questo risultato ha un’importanza pratica per la salute pubblica perché 1 porzione giornaliera aggiuntiva riduce il rischio di malattie cardiometaboliche dal 6% al 7%”, scrivono. Inoltre, “i pasti familiari più lunghi sono stati associati a una velocità di alimentazione più lenta, a un aumento della sazietà e a minor rischio di obesità nei bambini”, concludono i ricercatori.
Le diagnosi di asma sono calate del 12% rispetto al pre-Covid
Indagine IQVIA. A maggio SIMRI lancia esami gratuiti per i bimbi
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Nel periodo post-Covid sono aumentate le difficoltà di accesso alle cure specialistiche e nel 2022 le nuove diagnosi risultano calate del 12% rispetto al 2019.
Mentre le richieste di visite di controllo dallo pneumologo, nello stesso arco di tempo, sono calate del 35%. A rivelarlo, di par passo a un costante aumento delle forme gravi di malattia, è un’indagine condotta da IQVIA, provider di dati in ambito sanitario, per la Giornata mondiale della Asma che si celebra il 2 maggio.
I dati di IQVIA raccolti tramite ricerca nei Centri asma, mostrano come negli anni post-pandemici sia cresciuta la quota di pazienti asmatici in carico solo al medico di Medicina generale, mentre è scesa la quota dei malati trattati solo dallo specialista pneumologo o dall’allergologo. Le richieste di visite di controllo dallo pneumologo nel 2022 sono calate del 35% rispetto al 2019. Di pari passo, nei Centri specialistici i pazienti con asma severa sono cresciuti del 19% rispetto al 2020 e quelli trattati con farmaci biologici sono amentati del 66%.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra i 100 e i 150 milioni di persone sono colpite da asma nel mondo e interessa circa 1 bambino su 10 nei Paesi occidentali. In Italia ha una prevalenza di circa il 10% nella popolazione e fra loro il 2% soffre di asma grave. Dal 1998 il World Asthma Day si tiene tutti gli anni nel primo martedì di maggio su iniziativa della Global Initiative for Asthma per promuovere l’importanza della diagnosi precoce e aiutare i pazienti a gestire al meglio la malattia.
Quest’anno il tema della giornata sarà ‘Cure per tutti’. Per l’occasione, la Società Italiana di Malattie Respiratorie Infantili (SIMRI) ha lanciato una Campagna che vede coinvolti circa 30 Centri di Pneumologia Pediatrica che faranno valutazioni spirometriche pediatriche gratuite durante tutto il mese di maggio. La campagna vede coinvolte anche le Associazioni di pazienti come AsmAllergia Bimbi e Federasma e Allergia.
Malattie da accumulo lisosomiale, obiettivo screening dei neonati
In Toscana e Veneto progetto pilota con 400mila test
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Lo screening neonatale esteso può aiutare migliaia di bambini che ogni anno vanno incontro a disabilità gravissime o a morte prematura.
La Legge di Bilancio 2019 stabilisce l’inserimento di 10 patologie metaboliche, tra cui le malattie da accumulo lisosomiale, nella lista dello screening neonatale, modificando di conseguenza la Legge 167/2016 sullo screening neonatale metabolico. Ma fino ad oggi questo obiettivo non ha ancora trovato compimento.
Emerge dall’iniziativa “Raro chi trova”, promossa da Takeda con il patrocinio di Associazioni e società scientifiche.
Nell’ambito dell’evento, un Report condotto da AstraRicerche ha raccolto dati sull’utilità dello screening neonatale esteso per le malattie da accumulo lisosomiale, analizzando i risultati dei progetti pilota di Toscana e Veneto. La frequenza di casi positivi riscontrata sugli oltre 400.000 test effettuati è un elemento per l’estensione; accanto all’elevata frequenza della sintomatologia non neonatale. Altro dato è la sostenibilità economica. Lo screening neonatale esteso ha un relativo basso costo, qualche decina di euro a neonato, l’inserimento delle patologie da accumulo lisosomiale non cambierebbe le cose. Lo screening consiste in un test che analizza l’attività enzimatica specifica di ciascuna malattia seguito, nei casi positivi, da un secondo esame di conferma che ricerca i metaboliti caratteristici. “Nelle malattie da accumulo lisosomiale non parliamo più solo di screening ma di programma di screening: non si tratta di fare solo un’analisi ma anche prendere in carico il paziente- spiega Alberto Burlina, Direttore UOC di Malattie Metaboliche Ereditarie, Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova - Non c’è un motivo per non inserire le malattie lisosomiali nello screening neonatale esteso: la strumentazione e il personale sono gli stessi, anche se serve l’expertise specifico, nulla cambia per il paziente, nulla cambia per il Centro nascite né per il trasporto del materiale organico e per il laboratorio.
Non sono certo poche malattie a cambiare i costi, visto che abbiamo uno screening per 50 malattie. Servono pochi Centri selezionati, che abbiano un bacino di nati di almeno 60.000 all’anno”.
I pediatri sono sempre di meno. Il dossier GIMBE: “Ogni pediatra ha in media 100 bambini in più rispetto al tetto massimo di 800”
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“La carenza di pediatri di famiglia - spiega Cartabellotta - deriva da errori di programmazione del fabbisogno, in particolare la mancata sincronia per bilanciare pensionamenti attesi e borse di studio per la Scuola di Specializzazione. Ma rimane fortemente condizionata sia da miopi politiche sindacali, sia da variabili locali non sempre prevedibili che rendono difficile calcolarne il fabbisogno”.
“L’allarme sulla carenza dei pediatri di famiglia (PdF) oggi è lanciato da genitori di tutte le Regioni, da Nord a Sud con narrative dove s’intrecciano questioni burocratiche, mancanza di risposte da parte delle ASL, pediatri con numeri esorbitanti di assistiti, sino all’impossibilità di esercitare il diritto d’iscrivere i propri figli al pediatra di famiglia con potenziali rischi per la salute, in particolare dei più piccoli e dei più fragili”, così Nino Cartabellotta Presidente della Fondazione GIMBE, presentando un nuovo dossier della Fondazione finalizzato a comprendere meglio le cause e le dimensioni del fenomeno.
“È bene precisare - spiega Cartabellotta - tre aspetti fondamentali. Innanzitutto le regole sulle fasce di età di assistenza esclusiva dei minori, quelle per definire il “massimale” degli assistiti e quelle per identificare le aree carenti di pediatri sono frutto di compromessi con i medici di Medicina generale (MMG), oltre che delle politiche sindacali degli stessi PdF. In secondo luogo, su carenze e fabbisogno è possibile solo fare stime a livello regionale, perché la reale necessità di PdF viene stimata dalle singole Aziende Sanitarie Locali (ASL). Infine, sui numeri relativi ai nuovi specialisti in Pediatria che intraprendono la carriera di PdF e su quelli che vanno in pensione possono solo essere fatte delle stime”.
Le criticità attuali
Fasce di età. Sino al compimento del 6° anno di età i bambini devono essere assistiti per legge da un PdF, mentre tra i 6 e 14 anni i genitori possono scegliere tra PdF e MMG. Al compimento dei 14 anni la revoca del PdF è automatica, tranne per pazienti con documentate patologie croniche o disabilità per i quali può essere richiesta una proroga fino al compimento del 16° anno.
“Queste regole - spiega Cartabellotta - se da un lato contrastano con la definizione di PdF come medico preposto alla tutela della salute di bambini e ragazzi tra 0 e 14 anni, dall’altro rappresentano un enorme ostacolo per un’accurata programmazione del fabbisogno di PdF”.
Infatti, secondo i dati ISTAT al 1° gennaio 2022 la fascia 0-5 anni (iscrizione obbligatoria al PdF) include più di 2,6 milioni di bambini e quella 6-13 (iscrizione facoltativa al PdF) quasi 4,3 milioni: ovvero oltre il 62% della fascia 0-13 anni potrebbe iscriversi a un MMG in base alle preferenze dei genitori.
Massimale di assisiti. Secondo quanto previsto dal Ministero della Salute, il numero massimo di assistiti di un PdF è fissato a 800, ma esistono varie deroghe nazionali, regionali e locali che portano spesso a superare i 1.000 iscritti: indisponibilità di altri pediatri del territorio, fratelli di bambini già in carico a un PdF, scelte temporanee (es. extracomunitari senza permesso di soggiorno, non residenti).
“In tal senso - commenta il Presidente - le politiche sindacali locali hanno sempre mirato a innalzare il massimale (e i compensi) dei PdF già in attività, piuttosto che favorire l’inserimento di nuovi colleghi”.
Zone carenti. I nuovi PdF vengono inseriti nel SSN previa identificazione da parte della Regione - o soggetto da questa individuato - delle cosiddette “zone carenti”, ovvero gli ambiti territoriali in cui occorre colmare un fabbisogno assistenziale e garantire una diffusione capillare degli studi dei PdF. Attualmente, tuttavia, la necessità della zona carente viene calcolata solo sulla fascia di età 0-6 anni tenendo conto di un rapporto ottimale di 1 PdF ogni 600 bambini.
“È del tutto evidente - chiosa il Presidente - che questo metodo di calcolo sottostima il fabbisogno di PdF: paradossalmente, facendo riferimento alle regole vigenti, i PdF sarebbero addirittura in esubero perché il loro fabbisogno viene stimato solo per i piccoli sino al compimento dei 6 anni. Mentre di fatto assistono oltre l’80% di quelli della fascia 6-13 anni”.
Va segnalato che la bozza del nuovo Accordo Collettivo Nazionale propone di rivedere il calcolo del rapporto ottimale tenendo conto degli assistibili di età 0-14 anni, decurtati dagli assistiti di età > 6 anni in carico ai MMG e di innalzare il massimale da 800 a mille assistiti.
Pensionamenti. Secondo le stime dell’ENPAM al 31 dicembre 2021 più del 50% dei PdF aveva oltre 60 anni di età ed è, quindi, atteso un pensionamento massivo nei prossimi anni: ovvero, considerando una età di pensionamento di 70 anni, entro il 2031 dovrebbero andare in pensione circa 3500 PdF.
Nuovi pediatri. Il numero di borse di studio ministeriali per la scuola di specializzazione in Pediatria, dopo un decennio di sostanziale stabilità, è nettamente aumentato negli ultimi 5 anni: dai 440 nell’anno accademico 2016-2017 a 841 nel 2021-2022, con un picco di 973 nell’anno accademico 2020-2021.
Fabbisogno di PdF. “Tutte le criticità sopra rilevate - spiega Cartabellotta - permettono solo di stimare il fabbisogno di PdF in base al numero di assistiti attuali a livello regionale, in quanto la necessità di ciascuna zona carente viene identificata dalle ASL in relazione a numerose variabili locali, previa consultazione con i sindacati”.
Utilizzando i dati della SISAC al 1° gennaio 2022 e ipotizzando una media di 800 assistiti a PdF (pari all’attuale tetto massimo) si stima a livello nazionale una carenza di 840 PdF, con notevoli differenze regionali. Ma con una media di 700 assistiti per PdF, che garantirebbe l’esercizio della libera scelta, ne mancherebbero addirittura 1935.
Numero di borse di studio ministeriali per la specializzazione in Pediatria per anno accademico

“Tuttavia se da un lato è impossibile sapere quanti specializzandi in Pediatria sceglieranno la carriera di PdF e quanti quella ospedaliera, dall’altro è certo che i nuovi pediatri non saranno comunque sufficienti per colmare il ricambio generazionale”. In particolare, l’ENPAM stima che il numero dei giovani formati o avviati alla formazione specialistica coprirebbe solo il 50% dei posti di PdF necessari.
Stima del numero PdF mancanti al 1° gennaio 2022

“La carenza di PdF - conclude Cartabellotta - deriva da errori di programmazione del fabbisogno, in particolare la mancata sincronia per bilanciare pensionamenti attesi e borse di studio per la scuola di specializzazione. Ma rimane fortemente condizionata sia da miopi politiche sindacali, sia da variabili locali non sempre prevedibili che rendono difficile calcolarne il fabbisogno. Innalzare l’età pensionabile a 72 anni e aumentare il massimale a mille servono solo a mettere “la polvere sotto il tappeto” e non a risolvere il grave problema della carenza dei PdF. In tal senso servono un’adeguata programmazione, modelli organizzativi che puntino sul lavoro di team, grazie anche alle Case di comunità e alla telemedicina, oltre che accordi sindacali in linea con i reali bisogni della popolazione. Perché guardando ai numeri di pensionamenti attesi e dei nuovi pediatri è ragionevolmente certo che nei prossimi anni la carenza non potrà che acuirsi ulteriormente”.
Il burnout dei sanitari causa 100mila errori l’anno
La metà dei medici e degli infermieri è in uno stato di stress permanente
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Soffre di sindrome da burnout, quell’insieme di sintomi determinati da uno stato di stress permanente con il quale devono vivere il proprio lavoro, il 52% dei medici e il 45% degli infermieri che prestano la loro opera nei reparti ospedalieri di Medicina interna, quelli che da soli assorbono un quinto di tutti i ricoveri in Italia.
Una minaccia per la loro salute ma anche per quella degli assistiti, visto che lavorare quando si è in burnout significa alzare di molto le possibilità di commettere un errore sanitario, che in Italia sarebbero in tutto circa 100mila l’anno.
A fornire la fotografia di medici e infermieri è il sondaggio condotto da FADOI, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su un campione rappresentativo di oltre duemila professionisti sanitari e presentata a Milano al 28esimo Congresso Nazionale della Federazione.
In totale a dichiararsi in burnout è il 49,6% del campione ma la percentuale sale al 52% quando si parla di medici, per ridiscendere al 45% nel caso degli infermieri. E in entrambi i casi l’incidenza è più del doppio tra le donne, dove permane la difficoltà di coniugare il tempo di lavoro con quello assorbito dai figli e la famiglia in genere.
A influire sullo stato di stress cronico è anche il fattore età, visto che sotto i trent’anni la percentuale di chi è in burnout cala al 30,5%. Fatto è che proiettando i dati più che significativi delle medicine interne sull’universo mondo dei professionisti della nostra sanità pubblica abbiamo oltre 56mila medici e 125.500 infermieri che lavorano in burnout. E che per questo motivo incappano in qualche inevitabile errore. Uno studio condotto dalla Johns Hopkins University School of Medicine e dalla Mayo Clinic del Minnesota ha rilevato almeno un errore grave nel corso dell’anno nel 36% dei camici bianchi in burnout. Percentuale che proiettata sul totale dei nostri medici da un totale di oltre 20mila errori gravi.
Discorso analogo per gli infermieri. Qui una serie di studi internazionali raccolti dalla FNOPI, la Federazione degli ordini infermieristici, stima siano addirittura il 57% gli errori clinici più o meno gravi commessi nell’arco di un anno. Dato che applicato sul numero degli infermieri pubblici operanti in Italia in burnout da altri 71.500 errori in fase di assistenza per un totale di almeno di 92mila, sicuramente qualcuno in più considerando che uno stesso operatore può essere incappato in più di un errore nel corso dell’anno.
“L’influenza del burnout sulle malattie professionali è un fatto oramai acclarato dalla letteratura scientifica”, afferma Francesco Dentali, Presidente FADOI. “Il rischio di infarto del miocardio e di altri eventi avversi coronarici è infatti circa due volte e mezzo superiore in chi è in burnout, mentre le minacce di aborto vanno dal 20% quando l’orario di lavoro non supera le 40 ore settimanali salendo via via al 35% quando si arriva a farne 70. Evento sempre meno raro con il cronico sottodimensionamento delle piante organiche ospedaliere”, aggiunge Dentali. E quasi il 50% di medici e infermieri in burnout pensa di licenziarsi entro l’anno.
La ricerca FADOI contiene però anche un positivo e inedito rovescio della medaglia: la stragrande maggioranza dei medici che quella degli infermieri “sente di aver affrontato efficacemente i problemi dei propri pazienti”.
“Il lavoro sanitario ai tempi del burnout nuoce tanto alla salute dei cittadini che a quella di medici e infermieri”, commenta a sua volta il presidente della Fondazione FADOI, Dario Manfellotto. “Un problema - prosegue - tanto più sentito nei reparti di Medicina interna, che una anacronistica e vetusta classificazione ministeriale con il codice 26 definisce ancora a bassa intensità di cura, quando basta scorrere l’elenco delle cartelle cliniche per capire che i nostri sono pazienti complessi che necessitano di medio-alta intensità di cura”.
Fuma il 16% dei 13enni e a scuola il divieto non funziona
Istituto Superiore di Sanità, l’acquisto è troppo facile. Cresce l’uso delle e-cig
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In Italia il 16% degli studenti tra 13 e 15 anni fuma regolarmente, in maggioranza ragazze, e il divieto di fumo nelle scuole è ancora poco rispettato.
Il numero complessivo dei giovani fumatori è però calato complessivamente dal 2010 al 2022 passando dal 21% al 16%: uno studente su quattro ha usato almeno una volta nell’ultimo mese un prodotto tra sigarette, e-cig e prodotti a tabacco riscaldato e quasi uno su tre ha fumato una sigaretta tradizionale almeno una volta nella vita.
I dati emergono dalla Global Youth Tobacco Survey (GYTS), coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità e condotta ogni quattro anni su un campione di 13-15enni delle scuole italiane (quest’anno oltre 2mila) che per la prima volta vede una maggiore percentuale di utilizzo tra le femmine rispetto ai maschi per tutti i prodotti considerati.
L’indagine ha registrato anche una non sufficiente adesione al divieto di fumo nelle scuole, una forte esposizione dei ragazzi al fumo passivo, a casa o in auto, e una grande accessibilità a tutti i prodotti nonostante i divieti. Aumenta l’uso della e-cig che rilevato per la prima volta con l’indagine del 2018, è salito in 4 anni dal 18% al 20%. Anche il dispositivo a tabacco riscaldato, per la prima volta registrato nell’indagine 2022, viene utilizzato dal 14% dei fumatori abituali. Nonostante il decreto Tabacchi del 2016 preveda l’inasprimento delle sanzioni per inosservanza del divieto di vendita ai minori, l’indagine del 2022 rileva come queste misure non si siano ancora tradotte in una piena inaccessibilità per i minori a questi prodotti: un 13-15enne su 4 si è procurato le sigarette direttamente al tabaccaio (erano il 49% nel 2010) e il 14% dichiara di aver acquistato e-cig direttamente dai rivenditori. Per entrambi questi due prodotti quasi la metà dichiara di averli ottenute da un parente o un amico.
Tra i fumatori abituali che hanno cercato di comprare le sigarette al tabaccaio, il 73% dichiara di non aver ricevuto alcun rifiuto dal venditore a causa della minore età (percentuale che nel 2010 raggiungeva il 92%). Ancora troppo alta, inoltre, l’esposizione al fumo passivo, nelle scuole, in casa e in auto. Nonostante dal 2003 la legge Sirchia imponga il divieto di fumo in tutti i locali chiusi, incluso le scuole, e dal 2013 il DdL Lorenzin vieti il fumo nelle pertinenze esterne degli istituti scolastici, 1 studente su 3 riporta di aver visto fumare qualcuno all’interno della propria scuola e il 58% nelle pertinenze esterne (cortili, parcheggi, ecc.). Quasi la metà dei giovani intervistati (47%) dichiara che qualcuno ha fumato in casa in sua presenza.
Scoperti anelli molecolari coinvolti in un tumore pediatrico
Uno studio italiano potrebbe portare allo sviluppo di nuove cure
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Scoperte da scienziati italiani piccole molecole di RNA circolari (così chiamate perché presentano una struttura ad anello) che potrebbero avere un ruolo nel rabdomiosarcoma, un tumore pediatrico ad alta diffusione.
Resi noti su Nature Communications, i risultati di questa ricerca aprono una strada all’identificazione di innovativi approcci terapeutici contro questa forma di cancro.
Lo studio si deve a ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia e della Sapienza Università di Roma, ed è guidato da Irene Bozzoni.
Gli RNA circolari (circRNA) rappresentano una classe da poco riscoperta in quanto, sono difficili da identificare in campioni biologici. I circRNA svolgono molteplici funzioni all’interno della cellula e per questo sono coinvolti in processi fondamentali ma anche nello sviluppo di diverse patologie, tra cui il cancro.
Il rabdomiosarcoma è classificato tra i cosiddetti sarcomi dei tessuti molli che origina da cellule staminali da cui derivano numerosi tessuti, tra cui il muscolo scheletrico. Per questo motivo, tale tumore può presentarsi in tutte le sedi in cui sono presenti i muscoli.
Gli scienziati hanno caratterizzato l’espressione degli RNA circolari in questo tumore, scoprendo che alcuni di questi mostrano livelli più alti rispetto ai tessuti sani circostanti.
Ciò dipende da un gruppo di proteine che a loro volta presentano livelli decisamente alti in biopsie di rabdomiosarcoma e che promuovono la proliferazione e l’attività metastatica delle cellule tumorali di rabdomiosarcoma. Questo effetto potrebbe essere in parte riconducibile alle molecole di RNA circolare direttamente regolate da tali proteine.
I risultati di questo studio, finanziato dalla Fondazione AIRC, rappresentano un prezioso contributo per la comprensione dei meccanismi molecolari alla base di questo tumore e per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici laddove le strategie tradizionali hanno fallito.
Collasso neonatale: come ridurre il rischio nella prima settimana di vita
Le indicazioni dei neonatologi
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Dalla Società Italiana di Neonatologia un manuale, criticamente revisionate dagli esperti della SIN, che in base alle conoscenze attuali propone misure e strumenti ritenuti adeguati a ridurre il rischio di SUPC non solo in Sala Parto, ma anche nell’area Rooming-in/Nido.
Il collasso neonatale (Sudden Unexpected Postnatal Collapse - SUPC) è un evento improvviso e inaspettato, molto raro (circa 1 neonato ogni 10.000 nati), che può avere conseguenze drammatiche, da gravi disabilità neurologiche nella maggior parte dei neonati sopravvissuti, fino alla morte (25%-50% dei casi).
Il SUPC si può verificare nella prima settimana di vita (in particolare nelle prime due ore di vita) in neonati apparentemente sani, nati a termine o quasi a termine di gravidanza (età gestazionale > 35 settimane), senza sofferenza alla nascita (punteggio di Apgar ≥ 8 a 5 minuti di vita), valutati idonei per le cure neonatali standard. Si tratta di un’improvvisa compromissione cardiocircolatoria e respiratoria, che richiede manovre di rianimazione e può esitare in cure intensive neonatali e, come detto precedentemente, encefalopatia o morte. Sono stati identificati alcuni fattori di rischio, che possono essere oggetto di strategie di prevenzione.
Per questo motivo, la Società Italiana di Neonatologia (SIN) ha istituito una task force SUPC*, coordinata dalla prof.ssa Alessandra Coscia, a composizione multidisciplinare e multiprofessionale, con lo scopo di aggiornare le indicazioni già disponibili, che ha prodotto indicazioni SIN nazionali, fruibili nei diversi contesti assistenziali e utili ai professionisti per una gestione il più possibile efficace.
Le indicazioni, criticamente revisionate dalla commissione SIN-Safe e dal Consiglio Direttivo della SIN, propongono misure e strumenti che, in base alle conoscenze attuali, sono ritenuti adeguati a ridurre il rischio di SUPC, non solo in Sala Parto, ma anche nell’area Rooming-in/Nido. Inoltre sono state recepite anche nel documento sul Rooming-in, in corso di definizione da parte del Tavolo Tecnico Ministeriale ad hoc.
I principali fattori di rischio, spiega la SIN, sono relativi alle condizioni materne (stanchezza e sedazione), alle modalità di accudimento (condivisione del letto tra madre e neonato durante il sonno, posizioni “potenzialmente asfissianti” del neonato), a limitata sorveglianza del neonato da parte della madre, del padre, di altri familiari o dei professionisti sanitari. Gli interventi indicati dalla SIN hanno l’obiettivo di garantire che il rapporto tra madre e neonato possa avvenire nelle migliori condizioni di sicurezza e, conseguentemente, che le misure di prevenzione non interferiscano con le indicazioni atte ad assicurare alla diade madre-neonato il fondamentale contatto fisico ed emotivo. È necessario che gli interventi siano relativi sia all’aspetto della comunicazione, sia all’applicazione di protocolli di gestione e di sorveglianza.
Per quanto riguarda la comunicazione, le informazioni dovrebbero essere offerte ai genitori già nel periodo prenatale e riproposte durante il ricovero per il parto, discutendo con gli stessi sulle modalità di accudimento del neonato. Sono noti i benefici dell’interazione madre-neonato e del contatto pelle a pelle nell’immediato post-parto, un periodo sensibile, alla base di un legame intimo e profondo tra madre e neonato e che facilita l’adattamento del piccolo alla vita extra-uterina, nonché l’avvio di un precoce e duraturo allattamento al seno, fondamentale per il benessere della diade madre-neonato e per la normalità di crescita e sviluppo del piccolo.
Rispetto alle modalità con cui facilitare l’interazione tra madre e neonato, i genitori devono ricevere informazioni sull’organizzazione della Sala Parto e del Rooming-in, sul ruolo di supporto e sorveglianza fornito dal personale sanitario e sull’importanza della partecipazione dei genitori per rendere più sicura la gestione precoce del neonato.
A supporto di queste indicazioni, la SIN ha realizzato brochure e poster che possono avere un ruolo di rinforzo per memorizzare le buone pratiche. Deve essere sottolineato come le buone pratiche per sostenere l’interazione della diade madre-bambino siano da attuarsi anche una volta tornati al proprio domicilio.
Per quanto riguarda la gestione e la sorveglianza, i professionisti sanitari, adeguatamente formati, devono garantire un sistema di controlli della diade madre-neonato, volti a identificare lo stato di benessere del piccolo, della madre e a correggere comportamenti a rischio.
È necessario garantire una stretta sorveglianza del contatto madre-bambino nei primi 10-15 minuti di vita, al fine di confermare, sulla base delle condizioni del neonato, la scelta del contatto pelle a pelle nelle ore successive. Nelle due ore successive, la sorveglianza sarà condotta con una frequenza adeguata e compatibile con il contesto specifico, controllando la corretta posizione del bambino sul torace/addome materno. In qualunque momento le condizioni non ottimali della madre o le condizioni organizzative non consentano di effettuare il contatto pelle a pelle in sicurezza, va considerata la possibilità di interromperlo e di mettere in atto alternative temporanee, come porre il neonato in posizione supina in culla accanto alla madre, o coinvolgere il caregiver. In questi casi risulta ancora più importante il ruolo di personale sanitario del punto nascita, che deve avere una formazione specifica ed essere in grado di sorvegliare e supportare la relazione tra la mamma e il suo neonato.
*Task force SUPC della SIN: Riccardo Davanzo, Laura Ilardi, Gianluca Lista, Michelangelo Barbaglia, Maura Degrassi, Ezio Fulcheri, Bianca Giuffrè, Camilla Gizzi, Lidia Grappone, Mattia Luciano, Silvia Perugi, Irene Picciolli, Laura Travan, Elsa Viora.
Troppe foto dei figli sui social: quali sono i rischi e le regole per proteggerli
I genitori condividono ogni anno sui social network una media di 300 scatti dei propri figli esponendoli, spesso inconsapevolmente, a molti pericoli
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Dalla pubblicazione dell’immagine della prima ecografia durante la gravidanza fino alle foto delle vacanze o del compleanno, la vita - e l’identità - dei bambini è sempre più digitale. I genitori condividono ogni anno sui social network una media di 300 scatti dei propri figli esponendoli, spesso inconsapevolmente, a molti pericoli. A lanciare l’allarme sui rischi che possono correre i minori a seguito di un’esposizione così massiccia alle insidie del web è la SIP, la Società Italiana di Pediatria, a fronte dei dati emersi dallo studio della European Pediatrics Association, pubblicato sul sito della rivista scientifica Journal of Pediatrics.
Il fenomeno dello sharenting
L’analisi indaga il fenomeno dello sharenting, neologismo coniato negli Stati Uniti che deriva dalle parole inglesi share (condividere) e parenting (genitorialità), ovvero la condivisione online costante da parte di mamme e papà di contenuti come foto, video o storie che riguardano i propri figli. Un’abitudine ormai consolidata che può comportare rischi che vanno dal furto di dati personali fino all’utilizzo di immagini in siti pedopornografici e, nel futuro, offrire materiale online che potrebbe alimentare episodi di bullismo e cyberbullismo.
L’esposizione del minore ai tempi dei social
La ricerca, di cui è primo autore il professor Pietro Ferrara, responsabile del Gruppo di Studio per i diritti del bambino della SIP, evidenzia che un bambino già prima del suo quinto compleanno ha raggiunto una presenza in rete con quasi mille foto postate dai suoi genitori. I social più usati sono, nell’ordine, Facebook (54%), Instagram (16%) e Twitter (12%). La pubblicazione, inoltre, è spesso corredata dall’aggiunta di dettagli come il nome del piccolo, la sua età e dove vive. «Non va sottovalutato però che questa pratica può associarsi a una serie di problematiche che principalmente ricadono sui bambini», spiega Pietro Ferrara. «Spesso, infatti, i genitori non pensano che quanto condiviso sui social media, a volte anche molto personale e dettagliato, esponga pericolosamente i bimbi a una serie di rischi, primo fra tutti il furto di identità. Senza contare - prosegue il professore - che informazioni intime e personali, che dovrebbero rimanere private, oltre al rischio di venire impropriamente utilizzate da altri, possono essere causa di imbarazzo per il bambino una volta divenuto adulto, ad esempio in colloqui di lavoro e test di ammissione all’università. Infine, questo tipo di condivisione da parte dei genitori può inavvertitamente togliere ai bambini il loro diritto a determinare la propria identità».
Lo sharenting comincia dal periodo della gravidanza
Un recente lavoro, citato nello studio, evidenzia che in media l’81% dei bambini che vive nei Paesi occidentali ha una qualche presenza online prima dei 2 anni, percentuale che negli Usa è pari al 92%, mentre in Europa si attesta al 73%. Dati recenti mostrano che entro poche settimane dalla nascita, il 33% dei bambini ha proprie foto e informazioni pubblicate online. E un numero crescente di bambini nasce digitalmente ancor prima della nascita naturale. Infatti, si stima anche che un quarto dei bambini abbia un qualche tipo di presenza online prima di venire al mondo: negli Stati Uniti, il 34% dei genitori pubblica abitualmente ecografie online, percentuale che in Italia si attesta al 15%.
Il rischio è mettere momenti privati alla mercé di tutti
Secondo la ricerca, lo sharenting è finalizzato a documentare la crescita dei piccoli, condividere ansie e preoccupazioni, ricercare informazioni in ambito educativo, pediatrico, scolastico. Le tre tipologie di foto che vengono maggiormente condivise riguardano la vita quotidiana (mentre il bimbo dorme, gioca, mangia), uscite o viaggi e momenti speciali come il Natale, il momento del battesimo, il primo giorno di scuola o il compleanno. «Nel nostro ordinamento - sottolinea Ferrara - l’immagine della persona è tutelata da diverse norme: la legge sul diritto d’autore che prevede che nessun ritratto di una persona possa essere esposto senza il consenso di quest’ultima. Poi c’è l’articolo 10 del codice civile, che consente la richiesta di rimozione di un’immagine che leda la dignità di un soggetto con conseguente possibilità di risarcimento danni. Va, però, anche evidenziata un’ambiguità delle normative che proteggono l’immagine in quanto si parla di “consenso dell’interessato” che, nel caso di minore, deve essere offerto dal suo rappresentante legale (articolo 316 del Codice Civile), cioè proprio il genitore».
Lo sfruttamento dell’immagine
La tutela della sfera intima e familiare dovrebbe rappresentare, dunque, una priorità. Tra i rischi della condivisione social di contenuti privati c’è anche quello che questi finiscano su siti pedopornografici: un’indagine condotta dalla e-Safety Commission australiana ha evidenziato come circa il 50% del materiale presente su questi siti provenga dai social media dove era stato precedentemente condiviso da utenti per lo più inconsapevoli di quanto facilmente potesse essere scaricato non solo da parenti e amici, ma anche da estranei. L’ormai consolidata consuetudine a pubblicare online contenuti riguardanti i propri figli è finita all’inizio dell’anno anche sotto esame al Parlamento francese con una proposta di legge che vorrebbe limitarla. Firmatario della proposta è il deputato macronista Bruno Studer, ex insegnante che è stato testimone di episodi di bullismo nati da foto postate dai genitori dei ragazzi. L’obiettivo della norma è promuovere la sensibilizzazione e l’informazione sul tema, ma il testo prevede anche che ai genitori si possa togliere il diritto all’immagine dei figli affidando la tutela della stessa immagine a terzi.
Le raccomandazioni dei pediatri
Ma come fare, allora, a condividere le gioie della genitorialità e la soddisfazione per i traguardi raggiunti dai propri figli senza metterli a rischio in Rete? La SIP ha stilato un elenco di cinque raccomandazioni per aiutare le mamme e i papà a proteggere privacy e identità digitale dei minori, proprio in virtù del ruolo che gli specialisti ricoprono nel percorso di salute del bambino e come punto di riferimento delle famiglie. «I pediatri - afferma Annamaria Staiano, presidente della SIP - sono figure centrali per sensibilizzare i genitori sui pericoli associati alla condivisione online. Per proteggere la privacy dei bambini, alle famiglie può essere spiegato quali siano le possibili strategie difensive. È importante supportare le mamme e i papà, bilanciando la naturale inclinazione a condividere con orgoglio i progressi dei figli con l’informazione sui rischi connessi alla pratica dello sharenting». Secondo la SIP, i genitori devono porre la massima attenzione e diventare consapevoli che pubblicando contenuti online dei propri figli costruiscono il “dossier digitale” di un bambino senza il suo consenso e senza che lui ne sia a conoscenza. La condivisione di informazioni deve prevedere, inoltre, una certa cautela e, in molte occasioni, l’anonimato, perché quanto condiviso in maniera dettagliata e personale, come la localizzazione o il nome completo, potrebbe esporre pericolosamente i bambini, in primis al furto di identità. Il terzo punto è tranchant: non si devono condividere immagini dei propri figli in qualsiasi stato di nudità. Queste immagini dovrebbero rimanere sempre private. I pediatri suggeriscono poi di attivare notifiche che avvisino i genitori quando il nome dei loro figli appare nei motori di ricerca. Infine, i genitori devono rispettare il consenso e il diritto alla privacy dei minorenni e familiarizzare con la policy dei social o dei siti sui quali si condividono contenuti.
Dal Garante i consigli per postare in sicurezza
La consapevolezza dei “grandi” rispetto al potenziale pericolo a cui espongono i propri figli nel web e a un utilizzo improprio delle loro immagini da parte di terzi è la chiave per proteggere loro e la loro reputazione online. Una difesa che si può attuare anche seguendo alcune accortezze indicate dal Garante della Privacy che non richiedono specifiche competenze informatiche. Innanzitutto, il viso del minore può essere reso irriconoscibile utilizzando programmi di grafica per “pixellare” i volti, disponibili anche gratuitamente online, o coprirlo con una “faccina” di un’emoticon. Un’altra indicazione importante riguarda la limitazione delle impostazioni di visibilità delle immagini sui social network solo alle persone che si conoscono o che siano affidabili e non le condividano senza permesso nel caso di invio su programma di messaggistica istantanea. I profili vanno, dunque, “blindati” e presidiati attentamente. È sconsigliata, infine, la creazione di un account social dedicato al minore.
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