Aprile 2016 - Volume XIX - numero 4
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Clinica
Pediatrica, IRCCS Materno-Infantile "Burlo Garofolo", Trieste
Indirizzo
per corrispondenza: valentina_aba@yahoo.it
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La somministrazione di cicli di antibiotici entro i primi due anni di vita è davvero legata all'aumento del rischio di obesità infantile? Due diversi studi - pubblicati da "Gastroenterology" e "JAMA" - sono approdati a conclusioni contrastanti. Forse il punto cruciale è nelle alterazioni del microbioma intestinale in via di sviluppo.
Nel primo studio, pubblicato da Gastroenterology online, Frank I. Scott e colleghi, della Università di Denver nel Colorado, hanno esaminato l'associazione tra l'uso di antibiotici prima dei due anni e l'obesità, secondo il calcolo del BMI z-score, in 21.714 bambini del Regno Unito. E hanno dimostrato che all'età di quattro anni, i tassi di obesità si attestano al 5,2% nei bambini non sottoposti a terapie antibiotiche e del 6,4% in quelli sottoposti a terapie antibiotiche. In particolare l'uso di qualsiasi tipo di antibiotici prescritti nel primo anno di vita è stato associato a un aumento del rischio di obesità del 21%. Dopo l'aggiustamento dei dati per altri fattori, il rischio di obesità era più elevato del 41% tra i bambini che avevano ricevuto tre o più prescrizioni di antibiotici e del 47% più elevato fra coloro che avevano ricevuto più di cinque prescrizioni, rispetto a chi non aveva ricevuto alcun antibiotico.
L'associazione tra l'uso di antibiotici e l'obesità infantile era evidente solo per gli antibiotici anti-anaerobici e non per gli antibiotici senza attività anti-anaerobica o per gli agenti antifungini. "Mentre l'uso di antibiotici in età precoce è stato associato con una serie di rare conseguenze per la salute nel lungo termine, questi dati collegano gli antibiotici a uno dei più importanti e crescenti problemi di salute pubblica in tutto il mondo", hanno commentato i ricercatori.
Secondo studio
Jeffrey S. Gerber e colleghi dell'Ospedale pediatrico di Philadelphia, Pennsylvania, sono invece giunti a conclusioni diverse in uno studio pubblicato da JAMA. I ricercatori americani hanno valutato l'associazione tra l'esposizione agli antibiotici nei primi 24 mesi di vita e la crescita fino a sette anni in 38.614 bambini, tra cui 92 gemelli, discordanti per l'esposizione agli antibiotici nei loro primi sei mesi di vita. Il team ha dapprima evidenziato che il 14% dei bambini sono stati esposti agli antibiotici nei primi sei mesi di vita, e a 24 mesi di età, e i due terzi dei bambini considerati erano stati esposti a qualsiasi tipo di antibiotici. Ma, in contrasto con lo studio precedente, non emergeva alcuna associazione significativa tra l'uso di antibiotici nei primi sei mesi di vita e il tasso di variazione del peso a cinque anni. Inoltre, l'esposizione a qualsiasi antibiotico nei primi 24 mesi era associata a un maggior aumento di peso tra i due e i cinque anni, ma la media della differenza era pari a soli 0,15 kg; nella differenza dell'aumento, il peso massimo raggiunto, attribuibile all'esposizione agli antibiotici, era di soli 0,26 kg. Inoltre, confrontando 46 coppie di gemelli, non emergeva alcuna associazione tra l'esposizione agli antibiotici nei primi sei o 24 mesi e il successivo aumento di peso. "Questi risultati non supportano un'associazione clinicamente significativa tra l'uso di antibiotici nei primi anni di vita con l'aumento del peso nell'infanzia", hanno concluso questi ricercatori.
Commenti
Leonardo Trasande, della NYU School of Medicine, New York, che ha condotto studi sullo stesso tema, ha commentato entrambi gli studi sottolineandone i limiti. "Rispetto agli studi precedenti, questi due hanno difetti sostanziali. In particolare l'assenza di dati prenatali in entrambi gli studi testimonia il problema della gestione dei grandi numeri. Spesso grandi insiemi di dati hanno buchi enormi come la mancanza di quelli relativi all'allattamento al seno e ai rischi prenatali (fumo, solo per citarne uno). Abbiamo bisogno di studi meglio progettati che comprendano questi fattori e indaghino il meccanismo sottostante (lo studio del microbioma come fattore intermedio), come ad esempio avviene nel Environmental Influences on Child Health Outcomes program".
Anche un'altra studiosa sui problemi dell'obesità infantile e l'uso degli antibiotici, Anita Kozyrskyj dell'Università di Alberta, Edmonton, in Canada, ha fatto notare che nello studio americano si è rilevato solo l'aumento di peso, mentre nello studio nel Regno Unito è stato utilizzato un parametro più consolidato come il calcolo dell'indice di massa corporea (peso/altezza). Inoltre, in entrambi gli studi, l'uso di antibiotici è stato determinato dalle terapie prescritte, una valutazione più accurata rispetto a quanto avviene quando si considerano le dichiarazioni dei genitori. "Secondo me l'informazione più importante proveniente da questi due studi è che il trattamento dei bambini con molteplici cicli di antibiotici, in un momento in cui il microbioma intestinale è in fase di sviluppo, possa indirizzarci verso il microbioma come sito cruciale per il sovrappeso infantile ", ha commentato Kozyrskyj.
Nel primo studio, pubblicato da Gastroenterology online, Frank I. Scott e colleghi, della Università di Denver nel Colorado, hanno esaminato l'associazione tra l'uso di antibiotici prima dei due anni e l'obesità, secondo il calcolo del BMI z-score, in 21.714 bambini del Regno Unito. E hanno dimostrato che all'età di quattro anni, i tassi di obesità si attestano al 5,2% nei bambini non sottoposti a terapie antibiotiche e del 6,4% in quelli sottoposti a terapie antibiotiche. In particolare l'uso di qualsiasi tipo di antibiotici prescritti nel primo anno di vita è stato associato a un aumento del rischio di obesità del 21%. Dopo l'aggiustamento dei dati per altri fattori, il rischio di obesità era più elevato del 41% tra i bambini che avevano ricevuto tre o più prescrizioni di antibiotici e del 47% più elevato fra coloro che avevano ricevuto più di cinque prescrizioni, rispetto a chi non aveva ricevuto alcun antibiotico.
L'associazione tra l'uso di antibiotici e l'obesità infantile era evidente solo per gli antibiotici anti-anaerobici e non per gli antibiotici senza attività anti-anaerobica o per gli agenti antifungini. "Mentre l'uso di antibiotici in età precoce è stato associato con una serie di rare conseguenze per la salute nel lungo termine, questi dati collegano gli antibiotici a uno dei più importanti e crescenti problemi di salute pubblica in tutto il mondo", hanno commentato i ricercatori.
Secondo studio
Jeffrey S. Gerber e colleghi dell'Ospedale pediatrico di Philadelphia, Pennsylvania, sono invece giunti a conclusioni diverse in uno studio pubblicato da JAMA. I ricercatori americani hanno valutato l'associazione tra l'esposizione agli antibiotici nei primi 24 mesi di vita e la crescita fino a sette anni in 38.614 bambini, tra cui 92 gemelli, discordanti per l'esposizione agli antibiotici nei loro primi sei mesi di vita. Il team ha dapprima evidenziato che il 14% dei bambini sono stati esposti agli antibiotici nei primi sei mesi di vita, e a 24 mesi di età, e i due terzi dei bambini considerati erano stati esposti a qualsiasi tipo di antibiotici. Ma, in contrasto con lo studio precedente, non emergeva alcuna associazione significativa tra l'uso di antibiotici nei primi sei mesi di vita e il tasso di variazione del peso a cinque anni. Inoltre, l'esposizione a qualsiasi antibiotico nei primi 24 mesi era associata a un maggior aumento di peso tra i due e i cinque anni, ma la media della differenza era pari a soli 0,15 kg; nella differenza dell'aumento, il peso massimo raggiunto, attribuibile all'esposizione agli antibiotici, era di soli 0,26 kg. Inoltre, confrontando 46 coppie di gemelli, non emergeva alcuna associazione tra l'esposizione agli antibiotici nei primi sei o 24 mesi e il successivo aumento di peso. "Questi risultati non supportano un'associazione clinicamente significativa tra l'uso di antibiotici nei primi anni di vita con l'aumento del peso nell'infanzia", hanno concluso questi ricercatori.
Commenti
Leonardo Trasande, della NYU School of Medicine, New York, che ha condotto studi sullo stesso tema, ha commentato entrambi gli studi sottolineandone i limiti. "Rispetto agli studi precedenti, questi due hanno difetti sostanziali. In particolare l'assenza di dati prenatali in entrambi gli studi testimonia il problema della gestione dei grandi numeri. Spesso grandi insiemi di dati hanno buchi enormi come la mancanza di quelli relativi all'allattamento al seno e ai rischi prenatali (fumo, solo per citarne uno). Abbiamo bisogno di studi meglio progettati che comprendano questi fattori e indaghino il meccanismo sottostante (lo studio del microbioma come fattore intermedio), come ad esempio avviene nel Environmental Influences on Child Health Outcomes program".
Anche un'altra studiosa sui problemi dell'obesità infantile e l'uso degli antibiotici, Anita Kozyrskyj dell'Università di Alberta, Edmonton, in Canada, ha fatto notare che nello studio americano si è rilevato solo l'aumento di peso, mentre nello studio nel Regno Unito è stato utilizzato un parametro più consolidato come il calcolo dell'indice di massa corporea (peso/altezza). Inoltre, in entrambi gli studi, l'uso di antibiotici è stato determinato dalle terapie prescritte, una valutazione più accurata rispetto a quanto avviene quando si considerano le dichiarazioni dei genitori. "Secondo me l'informazione più importante proveniente da questi due studi è che il trattamento dei bambini con molteplici cicli di antibiotici, in un momento in cui il microbioma intestinale è in fase di sviluppo, possa indirizzarci verso il microbioma come sito cruciale per il sovrappeso infantile ", ha commentato Kozyrskyj.

Il ciuccio (pacifier in inglese) è un accessorio quasi indispensabile per i bambini ma anche per i genitori perché, come dice il suo nome inglese, può servire a pacificare, tranquillizzare il bambino; la sua alternativa, comoda ma svantaggiosa, è rappresentata dal dito. Il ciuccio può essere utile, ma se il bambino non lo vuole non è consigliabile costringerlo.
I vantaggi connessi con l'uso del ciuccio sono legati alla riduzione del rischio di morte improvvisa del lattante (SIDS) e alla riduzione della sofferenza e dello stress del bambino, compresa quella che si verifica in seguito a manovre dolorose; sembra, inoltre, che riduca le coliche gassose. La suzione "non nutritizia" mimerebbe la presenza della mamma e il contatto con il seno materno, riducendo l'ansia: tutti abbiamo visto bambini grandicelli piangere e mettersi il ciuccio in bocca da soli, per consolarsi. L'utilizzo del ciuccio dopo l'età di 15 giorni di vita, quando l'allattamento al seno è ben avviato, non comporta una riduzione dell'attaccamento e della durata dell'allattamento stesso.
Gli svantaggi connessi al suo utilizzo si verificano dopo l'anno di vita con l'interferenza con la corretta eruzione dei denti e con lo sviluppo della bocca e con possibili lesioni all'articolazione temporo-mandibolare per l'ingombro della bocca con un corpo estraneo (avviene, ovviamente, anche con la suzione del dito) e per il mantenimento della deglutizione infantile. Si verificano, anche, fenomeni di "dipendenza" da ciuccio che possono prolungarsi per anni.
La scelta del ciuccio dipende dall'età del bambino e dalla presenza dei denti. In generale è meglio scegliere quelli schiacciati, "anatomici", costruiti preferibilmente in un unico pezzo per evitare il pericolo di inalazione, con un disco d'appoggio grande e dotato di fori per l'aria. Inizialmente è meglio un ciuccio in silicone, che si danneggia meno con la sterilizzazione, mentre successivamente è preferibile utilizzarne uno in caucciù, più resistente all'azione tagliente dei denti.
Il ciuccio va sterilizzato fino all'età di circa 6 mesi; in seguito è sufficiente lavarlo.
I vantaggi connessi con l'uso del ciuccio sono legati alla riduzione del rischio di morte improvvisa del lattante (SIDS) e alla riduzione della sofferenza e dello stress del bambino, compresa quella che si verifica in seguito a manovre dolorose; sembra, inoltre, che riduca le coliche gassose. La suzione "non nutritizia" mimerebbe la presenza della mamma e il contatto con il seno materno, riducendo l'ansia: tutti abbiamo visto bambini grandicelli piangere e mettersi il ciuccio in bocca da soli, per consolarsi. L'utilizzo del ciuccio dopo l'età di 15 giorni di vita, quando l'allattamento al seno è ben avviato, non comporta una riduzione dell'attaccamento e della durata dell'allattamento stesso.
Gli svantaggi connessi al suo utilizzo si verificano dopo l'anno di vita con l'interferenza con la corretta eruzione dei denti e con lo sviluppo della bocca e con possibili lesioni all'articolazione temporo-mandibolare per l'ingombro della bocca con un corpo estraneo (avviene, ovviamente, anche con la suzione del dito) e per il mantenimento della deglutizione infantile. Si verificano, anche, fenomeni di "dipendenza" da ciuccio che possono prolungarsi per anni.
La scelta del ciuccio dipende dall'età del bambino e dalla presenza dei denti. In generale è meglio scegliere quelli schiacciati, "anatomici", costruiti preferibilmente in un unico pezzo per evitare il pericolo di inalazione, con un disco d'appoggio grande e dotato di fori per l'aria. Inizialmente è meglio un ciuccio in silicone, che si danneggia meno con la sterilizzazione, mentre successivamente è preferibile utilizzarne uno in caucciù, più resistente all'azione tagliente dei denti.
Il ciuccio va sterilizzato fino all'età di circa 6 mesi; in seguito è sufficiente lavarlo.
Uno studio finlandese ha identificato una correlazione tra le situazioni di stress vissute tra i 12 e i 18 anni e il rischio di problemi cardiovascolari a 28 anni. La correlazione, tuttavia, non implica necessariamente una causalità.

I bambini che vivono in un ambiente privo di stress possono diventare degli adulti con un rischio minore di attacchi cardiaci rispetto ai loro coetanei che provano difficoltà sociali, emotive, o finanziarie durante l'infanzia. È quanto emerge da uno studio finlandese. I ricercatori hanno stabilito i fattori psicosociali in 311 bambini di età dai 12 ai 18 anni. Poi, a 28 anni, hanno controllato loro la calcificazione delle arterie coronarie. Gli adulti che hanno avuto un elevato benessere psicosociale da bambini mostravano una probabilità del 15% inferiore di avere depositi di calcio che ostruiscono le arterie.
"Lo studio suggerisce che i fattori psicosociali dell'infanzia possano avere conseguenze a lungo termine sulla salute cardiovascolare", spiega l'Autore principale dello studio, il dottor Markus Juonala dell'Università di Turku in Finlandia.
Lo studio
Per comprendere la connessione tra il modo in cui i bambini crescono e come appaiono le loro arterie dopo alcuni anni, Juonala e i colleghi hanno analizzato dati raccolti dal 1980 al 2008 per lo studio Rischio Cardiovascolare nei Giovani Finlandesi. Tra le altre cose, questo studio ha misurato il benessere psicosociale osservando gli introiti della famiglia e il livello di istruzione, lo stato di lavoro dei genitori, la salute mentale dei genitori e l'uso di tabacco o l'abuso di altre sostanze, il peso e le abitudini di esercizio fisico dei genitori, eventi stressanti come divorzi, decessi o traslochi, e anche il livello di aggressività o comportamenti antisociali dei bambini e la loro abilità di interagire con altre persone.
Inoltre, i ricercatori hanno analizzato i risultati della tomografia computerizzata per stabilire la calcificazione delle arterie coronarie. Tra tutti (55 partecipanti) circa il 18%, avevano almeno alcune calcificazioni nelle loro arterie, hanno riportato i ricercatori su JAMA Pediatrics. In questo gruppo con calcificazioni, 28 partecipanti avevano bassi livelli di calcificazioni, 20 avevano un moderato quantitativo di calcio, e 7 avevano dei depositi sostanziali. Anche dopo avere tenuto in considerazione la situazione da adulti, come i fattori psicosociali e i fattori di rischio per malattie cardiache come l'obesità, il fumo, l'ipertensione, e l'elevato colesterolo, il team di ricerca ha comunque trovato che il benessere durante l'infanzia risulta associato con una ridotta calcificazione delle arterie nell'età adulta.
Lo studio è osservazionale e non prova che lo stress nell'infanzia causi l'ostruzione delle arterie o attacchi cardiaci, ma solo che le due cose sono collegate, fanno notare gli Autori. È possibile, tuttavia, che lo stress durante l'infanzia possa innescare modifiche nel funzionamento metabolico e infiammazioni che contribuiscano a depositi di calcio nelle arterie, sostengono i ricercatori.
È anche possibile che bambini più felici possano sviluppare abitudini più sane come diete migliori e routine di esercizio fisico più rigorose, che aiutano a mantenere le arterie non ostruite e diminuiscono il rischio di malattie cardiache più avanti nella loro vita.
I commenti
"Il messaggio da far passare ai genitori è che è importante capire che lo stress durante l'infanzia può avere effetti negativi, e che dovrebbero aiutare i loro bambini a diminuire lo stress", sostiene il dottor Stephen Daniels, ricercatore della University of Colorado School of Medicine e primario di pediatria al Children's Hospital Colorado.
"I genitori possono non essere sempre in grado di eliminare lo stress, tuttavia, in particolare lo stress che deriva da fattori ambientali come lo status socio-economico", ha aggiunto Daniels, che non è stato coinvolto nello studio.
"Lo studio suggerisce che i fattori psicosociali dell'infanzia possano avere conseguenze a lungo termine sulla salute cardiovascolare", spiega l'Autore principale dello studio, il dottor Markus Juonala dell'Università di Turku in Finlandia.
Lo studio
Per comprendere la connessione tra il modo in cui i bambini crescono e come appaiono le loro arterie dopo alcuni anni, Juonala e i colleghi hanno analizzato dati raccolti dal 1980 al 2008 per lo studio Rischio Cardiovascolare nei Giovani Finlandesi. Tra le altre cose, questo studio ha misurato il benessere psicosociale osservando gli introiti della famiglia e il livello di istruzione, lo stato di lavoro dei genitori, la salute mentale dei genitori e l'uso di tabacco o l'abuso di altre sostanze, il peso e le abitudini di esercizio fisico dei genitori, eventi stressanti come divorzi, decessi o traslochi, e anche il livello di aggressività o comportamenti antisociali dei bambini e la loro abilità di interagire con altre persone.
Inoltre, i ricercatori hanno analizzato i risultati della tomografia computerizzata per stabilire la calcificazione delle arterie coronarie. Tra tutti (55 partecipanti) circa il 18%, avevano almeno alcune calcificazioni nelle loro arterie, hanno riportato i ricercatori su JAMA Pediatrics. In questo gruppo con calcificazioni, 28 partecipanti avevano bassi livelli di calcificazioni, 20 avevano un moderato quantitativo di calcio, e 7 avevano dei depositi sostanziali. Anche dopo avere tenuto in considerazione la situazione da adulti, come i fattori psicosociali e i fattori di rischio per malattie cardiache come l'obesità, il fumo, l'ipertensione, e l'elevato colesterolo, il team di ricerca ha comunque trovato che il benessere durante l'infanzia risulta associato con una ridotta calcificazione delle arterie nell'età adulta.
Lo studio è osservazionale e non prova che lo stress nell'infanzia causi l'ostruzione delle arterie o attacchi cardiaci, ma solo che le due cose sono collegate, fanno notare gli Autori. È possibile, tuttavia, che lo stress durante l'infanzia possa innescare modifiche nel funzionamento metabolico e infiammazioni che contribuiscano a depositi di calcio nelle arterie, sostengono i ricercatori.
È anche possibile che bambini più felici possano sviluppare abitudini più sane come diete migliori e routine di esercizio fisico più rigorose, che aiutano a mantenere le arterie non ostruite e diminuiscono il rischio di malattie cardiache più avanti nella loro vita.
I commenti
"Il messaggio da far passare ai genitori è che è importante capire che lo stress durante l'infanzia può avere effetti negativi, e che dovrebbero aiutare i loro bambini a diminuire lo stress", sostiene il dottor Stephen Daniels, ricercatore della University of Colorado School of Medicine e primario di pediatria al Children's Hospital Colorado.
"I genitori possono non essere sempre in grado di eliminare lo stress, tuttavia, in particolare lo stress che deriva da fattori ambientali come lo status socio-economico", ha aggiunto Daniels, che non è stato coinvolto nello studio.
Dare caffè ai neonati con un peso molto basso (VLBW, inferiore ai 1500 grammi) potrebbe ridurre il rischio di sviluppare insufficienza renale acuta, secondo uno studio retrospettivo americano pubblicato sul "Journal of Pediatrics".

La caffeina, un rimedio sicuro e ben tollerato usato nelle cure neonatali intensive per trattare l'apnea della prematurità, potrebbe anche contribuire a ridurre il rischio di insufficienza renale acuta (AKI) - spiega Jennifer Charlton della University of Virginia di Charlottesville -. La nostra ricerca è unica perché è la prima che guarda agli effetti renali della caffeina. Sebbene non possiamo dimostrare che la sostanza da sola spieghi la protezione contro l'AKI, possiamo affermare che la caffeina è associata con la protezione contro la patologia".
Lo studio retrospettivo
Charlton e colleghi hanno analizzato retrospettivamente le cartelle cliniche di 140 neonati con VLBW, che pesavano meno di 1500 grammi alla nascita e che di conseguenza erano stati ricoverati per circa 15 mesi nell'unità di terapia intensiva neonatale. I ricercatori hanno escluso i piccoli morti entro i due giorni di vita e quelli ricoverati oltre i due giorni di età. Separatamente gli esperti hanno analizzato un sottogruppo di 44 neonati sottoposti a ventilazione artificiale prolungata durante i loro primi sette giorni di vita. Complessivamente, è stata data caffeina al 72,1% dei pazienti e al 54,5% di quelli con il supporto di respirazione artificiale. L'AKI si è verificata meno di frequente in chi ha ricevuto la sostanza rispetto a chi non l'ha presa (17,8% contro il 43,6% in tutti i pazienti, 29,2% contro il 75% in quelli sottoposti a ventilazione artificiale). "Negli ultimi anni, il nostro gruppo ha creato un grande database dei neonati con peso molto basso per valutare la prevalenza di insufficienza renale acuta in questo gruppo vulnerabile. L'AKI è abbastanza comune nei bambini ricoverati nell'unità di terapia intensiva neonatale. Abbiamo osservato che oltre il 40% dei bimbi VLBW soffre della patologia. Non esistono trattamenti una volta che la malattia si è sviluppata, quindi il nostro obiettivo è prevenirla".
I commenti
Tre nefrologi non coinvolti nel lavoro hanno raccomandato ulteriori studi. Vimal Chadha, nefrologo pediatrico al Children's Mercy Hospital di Kansas City (Missouri), spiega che "questi risultati sono incoraggianti, anche se si dovrebbe evidenziare che la riduzione del rischio è stata registrata solo nelle forme lievi di AKI. Inoltre, gli scienziati non hanno fornito alcuna informazione sull'impatto dei risultati del loro studio sull'esito finale di questi bambini. I dati devono essere valutati in altri centri per determinare se i risultati possono essere replicati".
Ravi Patel Mangal, assistente professore di pediatria alla Emory University School of Medicine di Atlanta, in Georgia, afferma che "un gran numero di bambini nello studio, in particolare quelli con il supporto respiratorio, non hanno ricevuto la caffeina. Ciò solleva domande sul perché questi bimbi non hanno avuto la sostanza e come questo può aver influito sui risultati. La riduzione del danno renale associato all'uso di caffeina è inoltre stato osservato solo con la forma più lieve di Aki, come gli stessi Autori riconoscono. Poiché le definizioni di danno renale utilizzate nel lavoro sono state adattate a partire da quelle di bambini più grandi e degli adulti", per l'esperto potrebbero non essere "clinicamente significative per i neonati prematuri".
Per Prasad Devarajan, direttore di nefrologia e ipertensione al Cincinnati Children's Hospital Medical Center in Ohio "questa è una nuova scoperta promettente, che deve essere esaminata più attentamente in altre coorti retrospettive di grandi dimensioni. Se confermati, questi risultati richiedono un futuro studio clinico randomizzato". "Se la caffeina dimostrasse di proteggere contro l'AKI in uno studio clinico randomizzato, per la prima volta potremmo avere un farmaco sicuro ed efficace per prevenire la patologia", conclude Charlton. Resta da capire se l'ipotetico farmaco proteggerebbe anche contro lo sviluppo della malattia renale cronica.
Lo studio retrospettivo
Charlton e colleghi hanno analizzato retrospettivamente le cartelle cliniche di 140 neonati con VLBW, che pesavano meno di 1500 grammi alla nascita e che di conseguenza erano stati ricoverati per circa 15 mesi nell'unità di terapia intensiva neonatale. I ricercatori hanno escluso i piccoli morti entro i due giorni di vita e quelli ricoverati oltre i due giorni di età. Separatamente gli esperti hanno analizzato un sottogruppo di 44 neonati sottoposti a ventilazione artificiale prolungata durante i loro primi sette giorni di vita. Complessivamente, è stata data caffeina al 72,1% dei pazienti e al 54,5% di quelli con il supporto di respirazione artificiale. L'AKI si è verificata meno di frequente in chi ha ricevuto la sostanza rispetto a chi non l'ha presa (17,8% contro il 43,6% in tutti i pazienti, 29,2% contro il 75% in quelli sottoposti a ventilazione artificiale). "Negli ultimi anni, il nostro gruppo ha creato un grande database dei neonati con peso molto basso per valutare la prevalenza di insufficienza renale acuta in questo gruppo vulnerabile. L'AKI è abbastanza comune nei bambini ricoverati nell'unità di terapia intensiva neonatale. Abbiamo osservato che oltre il 40% dei bimbi VLBW soffre della patologia. Non esistono trattamenti una volta che la malattia si è sviluppata, quindi il nostro obiettivo è prevenirla".
I commenti
Tre nefrologi non coinvolti nel lavoro hanno raccomandato ulteriori studi. Vimal Chadha, nefrologo pediatrico al Children's Mercy Hospital di Kansas City (Missouri), spiega che "questi risultati sono incoraggianti, anche se si dovrebbe evidenziare che la riduzione del rischio è stata registrata solo nelle forme lievi di AKI. Inoltre, gli scienziati non hanno fornito alcuna informazione sull'impatto dei risultati del loro studio sull'esito finale di questi bambini. I dati devono essere valutati in altri centri per determinare se i risultati possono essere replicati".
Ravi Patel Mangal, assistente professore di pediatria alla Emory University School of Medicine di Atlanta, in Georgia, afferma che "un gran numero di bambini nello studio, in particolare quelli con il supporto respiratorio, non hanno ricevuto la caffeina. Ciò solleva domande sul perché questi bimbi non hanno avuto la sostanza e come questo può aver influito sui risultati. La riduzione del danno renale associato all'uso di caffeina è inoltre stato osservato solo con la forma più lieve di Aki, come gli stessi Autori riconoscono. Poiché le definizioni di danno renale utilizzate nel lavoro sono state adattate a partire da quelle di bambini più grandi e degli adulti", per l'esperto potrebbero non essere "clinicamente significative per i neonati prematuri".
Per Prasad Devarajan, direttore di nefrologia e ipertensione al Cincinnati Children's Hospital Medical Center in Ohio "questa è una nuova scoperta promettente, che deve essere esaminata più attentamente in altre coorti retrospettive di grandi dimensioni. Se confermati, questi risultati richiedono un futuro studio clinico randomizzato". "Se la caffeina dimostrasse di proteggere contro l'AKI in uno studio clinico randomizzato, per la prima volta potremmo avere un farmaco sicuro ed efficace per prevenire la patologia", conclude Charlton. Resta da capire se l'ipotetico farmaco proteggerebbe anche contro lo sviluppo della malattia renale cronica.
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